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Perché critico Conte

Fatto

Il governo Conte ha dato l’impressione di volere obbligare il centrodestra a negare la fiducia perché non si potesse materializzare in alcun modo, neppure indiretto, quel clima di unità nazionale auspicato dal Quirinale. I graffi di Damato

Più della mascherina indossata disciplinatamente dalla presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati, più di quell’insolito spettacolo dell’aula trasformata dalle misure di sicurezza sanitaria in un anfiteatro surreale, più degli insulti che si sono scambiati due parlamentari, uno dei quali dava all’altro dell’”untore” perché non aveva adottato la mascherina giusta, o l’aveva indossata male, della seduta del Senato per l’approvazione del decreto legge chiamato enfaticamente dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte “Cura Italia” sull’emergenza del coronavirus è destinato a rimanere nella storia parlamentare il sostanziale schiaffo dato dal governo, con la minuscola, all’assemblea di Palazzo Madama. Tale è stato di fatto il ricorso alla cosiddetta questione di fiducia su un argomento di quel genere, e nelle attuali circostanze politiche.

NESSUN OSTRUZIONISMO DELLE OPPOSIZIONI DA VINCERE AL SENATO

Non c’era nessun ostruzionismo delle opposizioni da vincere, avendo il centrodestra ridotto al minimo le sue proposte di modifica per la conversione in legge del decreto. Il governo poteva solo temere incidenti della sua maggioranza, molto più divisa anche sull’emergenza virale di quanto non sia già apparso da cronache, retroscena e quant’altro, per cui avrebbero potuto incrociarsi i suoi dissensi interni con quelli del centrodestra e prevalere nell’esito delle votazioni.

Ma soprattutto il governo Conte ha dato l’impressione di volere obbligare il centrodestra a negare la fiducia perché non si potesse materializzare in alcun modo, neppure indiretto, quel clima di unità nazionale pubblicamente e ripetutamente auspicato, anzi chiesto dal presidente della Repubblica. Del quale pertanto si può dire che abbia ricevuto metaforicamente uno schiaffo non meno clamoroso di quello subìto, più in generale, dal Parlamento.

Ne ho viste tante nella mia non breve storia professionale di giornalista specializzato, diciamo così, nelle vicende politiche, e in circostanze anch’esse drammatiche come quella, per esempio, del terrorismo durante i 55 giorni del drammatico sequestro di Aldo Moro. Allora in un “transatlantico”, alla Camera, affollato di deputati appena raggiunti dalla notizia, e in attesa della presentazione del governo monocolore appena ricostituito da Giulio Andreotti negoziando il voto di fiducia con i comunisti,  un esagitato Ugo La Malfa invocò il ripristino della pena di morte contro chi aveva rapito,  fra il sangue della sua scorta sterminata, il leader democristiano di cui lui poco più di sei anni prima aveva impedito l’elezione a presidente della Repubblica solo perché sarebbe stato votato anche dai comunisti.

Le contraddizioni, evoluzioni, giravolte sono ordinarie nella politica. Eppure, col bollettino quotidiano dei morti e dei malati, non solo dei guariti, da coronavirus lo spettacolo del governo al Senato in questo passaggio dell’emergenza virale mi è parso francamente inaudito, per quanto conforme, per carità, alle norme costituzionali e a quelle regolamentari. E tutto lascia purtroppo ritenere o temere che lo spettacolo si ripeterà alla Camera sullo stesso decreto e in entrambi i rami del Parlamento sui decreti successivi, essendo l’emergenza virale lontana dalla fine, vista la proroga dei regimi di blocco appena annunciata sino al 3 maggio, con la sarcastica reazione attribuita dal vignettista Stefano Rolli, sul Secolo XIX, a due coronavirus, dei quali uno chiede all’altro se ha fretta.

 

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