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A che punto è il processo Stato-mafia

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I Graffi di Damato. Il conto alla rovescia per gli imputati, in appello, della trattativa con la mafia

Da oggi comincia, con la Camera di Consiglio finale al processo d’appello di Palermo, il conto alla rovescia in tutti i sensi, con inizio certo e termine che risulterà alla fine, per la conferma o la smentita, parziale o totale, delle condanne comminate nel 2018, in primo grado, per la cosiddetta, fantomatica trattativa fra lo Stato e la mafia, o pezzi dello Stato e della mafia. Che doveva servire, secondo l’accusa, a ridurre o fermare le stragi mafiose svoltesi o tentate fra il 1992 e il 1994, a cavallo non casuale fra la prima e la seconda Repubblica. Cioè quando la mafia potette in qualche modo giocare un ruolo anche in quel passaggio, puntando sulla debolezza della Repubblica cadente, quella del sistema elettorale proporzionale, e scommettendo sulla nuova, prodotta dall’incrocio fra la demolizione giudiziaria dei vecchi partiti di governo e un sistema elettorale prevalentemente maggioritario.

Scrivo di “cosiddetta” e “fantomatica” trattativa perché non di trattativa sono stati formalmente accusati gli imputati condannati in primo grado dopo cinque anni di processo, e che la pubblica accusa ha chiesto di ricondannare in appello, ma di “minaccia a corpo politico o amministrativo o giudiziario dello Stato”, come dice l’articolo 338 del codice penale, “per impedirne, in tutto o in parte, anche temporaneamente, o per turbarne comunque l’attività”. Già in questa formulazione dell’accusa, senza che si parli appunto di trattativa, questa vicenda processuale è equivoca agli occhi della gente, diciamo così, comune.

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Fra i condannati ci sono il boss mafioso Leoluca Bagarella, sopravvissuto alla morte di Totò Riina e Bernardo Provenzano avvenuta durante la vicenda processuale, il medico mafioso Antonino Cinà, l’ex comandante del reparto speciale dei Carabinieri Angelo Subranni, l’ex vice comandante Mario Mori, l’ex colonnello Giuseppe De Donno e l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. Per calunnia è stato invece condannato il pur testimone usato dall’accusa Massimo Ciancimino, figlio di Vito, l’ex sindaco mafioso di Palermo. Anche questa può essere considerata dalla gente comune la classica ciliegina su una torta dal sapore assai strano. Un calunniatore di solito non è attendibile.

La strada per la conferma delle condanne di primo grado, dopo due anni di processo d’appello, è tutta in salita per ammissione anche di un giornale come Il Fatto Quotidiano, ultraconvinto che lo Stato si fosse piegato in quel negoziato, anziché decapitare, per esempio, la mafia con l’arresto di Totò Riina. “L’ostacolo più grande – ha scritto Marco Lillo sul giornale di Marco Travaglio – è il giudicato definitivo della Cassazione che assolve l’ex ministro democristiano Calogero Mannino per gli stessi fatti”. Che è stato giudicato col rito abbreviato, su sua stessa richiesta, ed è stato appunto assolto in primo e in secondo grado. L’accusa ha rimediato una terza sconfitta con un ricorso in Cassazione improponibile.

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Mannino, peraltro, secondo l’accusa originaria sarebbe stato il promotore principale, o quasi, della trattativa, o della “minaccia ad un Corpo… eccetera eccetera”, per sottrarsi alla morte alla quale la mafia lo aveva davvero condannato: un’accusa “non solo infondata, ma anche totalmente illogica e incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti” da parte della Procura di Palermo, hanno scritto i giudici. E’ su uno specchio del genere che ha voluto continuare ad arrampicarsi l’accusa nel processo contro gli altri imputati. E’ difficile da credere ma è avvenuto realmente.

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