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Che combina Dibba?

Dibba

Piazza pulita della coppia grillina Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio

La piazza pulita della coppia politica Di Battista-Di Maio, in ordine rigorosamente alfabetico, intestatasi dall’omonima trasmissione televisiva di Corrado Formigli con un’intervista dell’ex parlamentare 5 Stelle ha riproposto al ricordo dei cronisti tantissime fotografie di quelli che sembravano i dioscuri grillini. Fra i quali lo stesso Beppe Grillo si era per po’ mostrato indeciso a scegliere il preferito.

La più significativa foto di quella serie è forse quella scattata tra le impalcature metalliche di una manifestazione estiva del movimento in cui Dibba, come Alessandro Di Battista è chiamato dagli amici, appoggia la sua mano protettiva sulla testa di Di Maio, quando non poteva nemmeno immaginare di doverla poi tagliare, per quanto metaforicamente, per farla rotolare come si divertiva, a suo modo, a ordinare Robespierre. Che però Clemente Mastella, il sindaco di Benevento al quale Di Maio è stato paragonato per amore delle poltrone, ha liquidato nel caso di Di Battista come “Robespierre dei miei stivali”. Tuttavia va riconosciuto che Mastella è stato ministro del Lavoro del centrodestra di Silvio Berlusconi e poi ministro della Giustizia del secondo governo di cosiddetto centrosinistra di Romano Prodi, come il conterraneo Di Maio è stato vice presidente e pluriministro del governo gialloverde di Giuseppe Conte prima di diventarne ministro degli Esteri nella opposta edizione politica giallorossa.

Guadagnatosi non a caso la parte satirica della prima pagina del Foglio, dove sono rimasti spiazzati nella generosa o spericolata scommessa della capacità evolutiva di quelli che il fondatore del giornale Giuliano Ferrara chiamava una volta “grillozzi”, Di  Battista ha avuto il merito, col suo affondo contro Di Maio, pur non facendone peraltro il nome ma solo quello della sua  Udeur, di mettere davvero a nudo la situazione del movimento attorno al quale da più di due anni e mezzo ruotano – ahimè – gli equilibri o squilibri politici, come sarebbe meglio definirli, del Parlamento e del Paese. Dove si vorrebbe estendere a livello locale la formula centrale di governo.

Non si tratta solo di faide personali, per quanto vi abbiano il loro peso, per carità. Il movimento grillino è diviso fra la voglia di diventare un partito di governo davvero, sia pure con la massima disinvoltura possibile, passando inopinatamente da un alleato all’altro, secondo le convenienze del momento, e quella di rimanere un movimento di opposizione, paradossalmente anche quando gli capita di stare al governo, o addirittura di condurlo, come sta accadendo da più di due anni e mezzo con Giuseppe Conte. Che, per quanti sforzi faccia di darsi una sua fisionomia, è un grillino emerito, diciamo così, non a caso designato a Palazzo Chigi dai pentastellati, promosso presidente del Consiglio da semplice ministro della funzione pubblica – l’ennesimo ministro della riforma burocratica – quale risultava nella “lista” dell’eventuale governo monocolore depositata prima delle elezioni del 2018 al Quirinale nelle mani del Segretario Generale.

Allora il capo dello Stato si sottrasse giustamente ad una così inusuale incombenza. Che avrebbe potuto tradursi solo in un aiuto ulteriore d’immagine al movimento 5 Stelle, dopo quello involontariamente fornitogli negando poco più di un anno prima all’ormai ex presidente del Consiglio ma ancora segretario del Pd Matteo Renzi lo scioglimento anticipato delle Camere per effetto della bocciatura referendaria della riforma costituzionale, diventatane l’unica finalità.

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