In attesa della pronuncia della Consulta, la battaglia sull’autonomia differenziata riflette una spaccatura profonda tra…
Che cosa succede a Roma?
I Graffi di Damato. Tutti i partiti ormai sulla scivolosa scalinata del Campidoglio
Com’era normale che accadesse, il “rafforzamento” della ricandidatura della sindaca uscente Virginia Raggi, come l’ha definito Il Messaggero dopo la sua seconda assoluzione dall’accusa di falso, ha determinato una maggiore attenzione sul Pd, privo ancora di un suo candidato al Campidoglio e perciò “scosso” – sempre secondo il principale quotidiano romano – dal ritorno in campo della vincitrice grillina delle passate elezioni, nel 2016.
Anche i piddini più smaniosi di estendere in sede locale l’alleanza nazionale di governo con i pentastellati, peraltro già in difficoltà per la verifica di maggioranza imposta e condotta da Matteo Renzi col piglio almeno di chi vuole in ogni modo arrivare ad una crisi o resa di conti proprio per essere stato lui a volere e determinare l’intesa l’anno scorso vedendone poi effetti meno soddisfacenti o più negativi del previsto; anche i piddini, dicevo, più smaniosi di accordarsi con i pentastellati nelle prossime elezioni capitoline, e in altre analoghe dell’anno prossimo, sanno ormai che la Raggi si è troppo rafforzata nel suo Movimento perché qualcuno possa rimuoverla per facilitare un accordo col partito di Nicola Zingaretti. Che, dal canto suo, non può decentemente contraddire l’opposizione condotta contro l’amministrazione capitolina uscente dopo il clamoroso strappo, se non proprio l’autorete dell’anno scorso costituita dalla conferma di Conte a Palazzo Chigi, rinunciando alla “discontinuità” reclamata all’inizio per subentrare nel governo ai leghisti.
Come la Raggi e i grillini sono ora obbligati a cercare aiuti solo di liste locali per tentare l’improbabile impresa di conservare il Campidoglio – “Tanti – ha detto la sindaca – sui territori, nelle periferie, vogliono impegnarsi con noi, al di fuori dei salotti e dei giochi di potere”- così nel Pd la logica vuole, salvo scelte masochistiche, che si riducano le resistenze contro la oggettivamente forte candidatura di Carlo Calenda. Che ha appena annunciato di volere aspettare Zingaretti per qualche settimana ancora, massimo sino a febbraio, salvo un rinvio delle elezioni amministrative dalla primavera all’autunno, pronto diversamente a correre da solo contro una Raggi alla quale ha voluto elegantemente, ma anche furbescamente, fare i complimenti per l’assoluzione, felicissimo di misurarsi con lei nella competizione capitolina.
Ma un candidato come Calenda da solo, col credito che è riuscito a conquistarsi in questi mesi, e i suoi trascorsi governativi di uomo pragmatico e competente, non certo di provenienza bolscevica, non dovrebbe preoccupare solo il Pd. Dovrebbe preoccupare anche il centrodestra, di cui Calenda ha finto di dare per sicura la scelta di Guido Bertolaso come candidato, pronto a confrontarsi anche con lui. Ma non dimentichiamo che il centrodestra romano è lo stesso delle elezioni del 2016, quando non riuscì ad esprimere una candidatura comune davvero condivisa, né con Bertolaso né con Alfio Marchini, e nel ballottaggio, pur di non votare il candidato del Pd Roberto Giachetti, neppure lui di certo un bolscevico, oggi non a caso schierato da renziano con Calenda, gli preferì la Raggi con dichiarazioni persino pubbliche di voto di leghisti, forzisti e fratelli d’Italia. Pensate un po’ di cosa sono stati e sono capaci anche da quelle parti sulla scivolosa scalinata del Campidoglio, così poco lontana peraltro da Palazzo Chigi.