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Ecco le ultime mosse di Conte che ricordano la politica della Dc

Conte

I graffi di Damato sulle ultime mosse di Giuseppe Conte, che in quattro e quattr’otto ha risolto il problema delle dimissioni di Lorenzo Fioramonti da ministro della Pubblica Istruzione

Scusatemi, ma condizionato anagraficamente dal fantasma della Dc, il partito attorno al quale ha ruotato la politica italiana per tanti decenni in cui ho scritto e parlato di governi, partiti, leader, leaderini, congressi, consigli nazionali, comitati centrali, commedie e tragedie connesse, non ho resistito alla tentazione di cercare un paragone con qualcuno di quegli uomini dello scudo sentendo Giuseppe Conte nella conferenza stampa di fine anno: il “bellissimo” 2019 previsto, promosso, annunciato dallo stesso Conte nelle ultime battute del 2018. E che tale si è rivelato almeno per lui, riuscito a restare a Palazzo Chigi, o “raddoppiare”, secondo la rappresentazione del manifesto, in un cambiamento di maggioranza che, francamente, più radicale non poteva essere.

Il mio pensiero è corso subito al decisionismo e all’impulsività di Amintore Fanfani nel sentire l’annuncio di Conte di avere risolto in quattro e quattr’otto il problema delle dimissioni di Lorenzo Fioramonti da ministro della Pubblica Istruzione, nonostante i retroscena giornalistici appena pubblicati sui problemi che avevano creato i grillini al presidente del Consiglio anche nella indicazione del successore al loro collega. Che peraltro era uscito dal governo in dissenso non tanto dal ministro piddino dell’Economia perché gli aveva negato i maggiori fondi reclamati per la scuola quanto dal capo del movimento delle 5 stelle Luigi Di Maio, contestato da Fioramonti per i suoi metodi di comando e per lo stesso contenuto della sua linea politica, incerta tra una certa nostalgia di Salvini, al di là delle apparenti polemiche, e una certa diffidenza verso il Pd e Conte in particolare. Di cui lo stesso Di Maio secondo indiscrezioni di stampa teme la concorrenza come capo del movimento, godendo in fondo di più fiducia di lui da parte del “garante”, dell’”elevato”, del “fondatore” Beppe Grillo.

Di stampo o stile fanfaniano, cioè decisionista, mi è apparso anche il tipo di soluzione data da Conte alla sostituzione di Fioramonti, tornando allo spacchettamento del Ministero in due per lasciare la parte ordinaria della scuola alla sottosegretaria grillina uscente Lucia Azzolina, e assegnare la parte forse più corposa o prestigiosa, quella dell’Università e della Ricerca, a un uomo praticamente del Pd: il rettore dell’Università di Napoli presidente della Conferenza dei rettori Gaetano Manfredi. Così, fra l’altro, Di Maio non potrà più dire, come più volte gli è stato attribuito, sempre dai retroscenisti e in polemica per il troppo spazio lasciato da Conte alla componente piddina della coalizione, che a detenere la maggioranza nel Consiglio dei Ministri sono i pentastellati.

Ma la parte del fantasma di Fanfani è finita qui. Per tutto il resto della conferenza stampa di fine anno– in particolare, per la sua ostinata fiducia nella soluzione delle controversie nella maggioranza, per la minimizzazione dei contrasti e, più in generale, delle difficoltà reali o potenziali, comprese le scadenze elettorali locali e i referendum possibili sulla diminuzione del numero dei parlamentari e sulla legge elettorale, per le distanze nettissime prese da quanti, fra i grillini, a cominciare da Fioramonti, pensano di costituire gruppi autonomi per sostenerlo più convintamente di Di Maio, per il conseguente invito rivolto a tutti membri della maggioranza a rimanere prudentemente nei rispettivi partiti per non frantumare la coalizione- per tutto il resto, dicevo, Conte mi è sembrato emulo del personaggio democristiano da lui stesso d’altronde indicato come modello sin dall’inizio della sua esperienza di governo: il corregionale Aldo Moro.

Non so, francamente, se a posta o per una felice combinazione, Conte ha innalzato una specie di monumento al metodo del “confronto”, sempre e ad ogni costo, anche con l’opposizione leghista, al netto della “insidiosità” della leadership salviniana. Ebbene, “Confronto” fu il nome che Moro volle dare all’agenzia della corrente democristiana da lui creata nell’estate del 1968 rompendo con i “dorotei” di Mariano Rumor e Flaminio Piccoli, che lo avevano appena detronizzato da Palazzo Chigi con l’aiuto di Fanfani, Il quale poi derise un po’ quel termine inserendolo tra “le parole magiche” che secondo lui, istintivamente portato a tagliare più che a sciogliere i nodi, rischiavano di non risolvere ma complicare le situazioni.

Il confronto, secondo quanto cercò una volta di spiegarmi lo stesso Fanfani, polemico allora anche col suo ancora delfino Arnaldo Forlani, che io avevo empaticamente descritto in un articolo come fanfaniano nel cuore e moroteo nella mente, era inevitabilmente nelle cose. Quando lo si assumeva come linea distintiva di una politica, alla maniera appunto di Moro, l’altro “cavallo di razza” della Dc, diventava qualcosa di equivoco o ambiguo. Ciò tuttavia non avrebbe impedito a Fanfani nel 1978, cioè dieci anni dopo, di essere nella Dc fra i più solidali con Moro sequestrato dalle brigate rosse e condannato a morte dopo un sommario processo nella “prigione del popolo”. L’allora presidente del Senato incoraggiò dietro le quinte il capo dello Stato Giovanni Leone a tentare la grazia solo ad una dei tredici detenuti, o “prigionieri”, con i quali i terroristi volevano scambiare il presidente della Dc. Ma gli aguzzini preferirono precedere Leone assassinando l’ostaggio.

Tutti I graffi di Francesco Damato

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