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Cosa dice il governo sull’Afghanistan

Afghanistan

I Graffi di Damato. Draghi scommette su ciò che l’Occidente ha saputo seminare in Afghanistan

Stretto anche lui tra “promesse e paura”, come ha titolato il Corriere della Sera riferendosi alle promesse, appunto, dei talebani ormai padroni dell’Afghanistan che cercano di accreditarsi come moderati, sino a “fare i democristiani”, come ha titolato Il Fatto Quotidiano, e la paura che essi continuano a fare dentro e fuori casa, il presidente del Consiglio Mario Draghi se l’è cavata da fedele amico e alleato degli americani. In un sostanziale messaggio attraverso un’intervista al Tg1 egli non si è unito al coro delle proteste, delle lamentazioni, delle accuse agli Stati Uniti per i vent’anni di una guerra conclusasi come certamente non immaginavano inizialmente alla Casa Bianca. E neppure, naturalmente, nelle Cancellerie di tutti i paesi, compresa l’Italia allora governata da Silvio Berlusconi, che decisero di partecipare alla dura reazione militare agli attentati dell’11 settembre 2001 alle Due Torri di New York e al Pentagono.

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Draghi, anche a costo di finire nel calderone di quell’Italia “culla del paraculismo” denunciata da Marco Travaglio dopo avere dato – ripeto – dei paraculi “democristiani” pure ai talebani, ha onorato la memoria delle 54 vittime italiane della guerra afghana definendoli “eroi” e ha scommesso sugli effetti positivi che è destinato a produrre ciò che abbiamo seminato insieme agli alleati in quel lontano Paese. “Lasciamo una traccia profonda nella società afghana” dalla quale neppure i talebani potranno prescindere, ha detto e voluto far capire Draghi. Che evidentemente ha preferito questa speranza allo sgomento provocato in tanti altri suoi colleghi, compresa la cancelliera tedesca con la quale egli si era appena consultato, dalle immagini degli aerei presi d’assalto a Kabul da folle in fuga disperata da quella che avvertono solo come sciagura.

Draghi ha preferito l’ottimismo – chiamiamolo pure col suo vero nome – anche sulla capacità dell’Occidente, a cominciare dall’Unione Europea, nell’ambito della quale egli ha voluto tracciare quello che Il Foglio ha definito “un asse con Merkel”, di aiutare quelli che sono rimasti in Afghanistan con la paura e quelli già fuggiti o in fuga. A proposito della cui destinazione invece il solito Matteo Salvini ha già gridato che non se ne dovrebbe neppure parlare in Italia, non capendo che il presidente del Consiglio ha posto il problema in chiave europea e mondiale, parlando del G20 e del G7. Dove egli intende trattare la questione afghana dopo la fine dell’occupazione militare. Il leader leghista, anche in questo probabilmente con l’aiuto del ministro, amico e compagno di partito Giancarlo Giorgetti, avrà modo probabilmente di tornare sull’argomento in modo più riflessivo, o meno concitato.

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Lo stesso si potrebbe dire, per altro verso e all’interno della maggioranza di governo, per Matteo Renzi. Che ha subito avvertito che “con i talebani non si tratta”, mentre da Bruxelles il commissario europeo per la sicurezza e le relazioni internazionali, lo spagnolo Josep Borrell, diceva che non si può non parlare “con chi ha vinto”.

Considerandoli un po’ come i talebani di casa nostra Renzi disse anche dei grillini, dopo le elezioni del 2018, che non potevano essere gli interlocutori dell’ancora suo Pd. E si mise metaforicamente a mangiare pop-corn davanti allo spettacolo delle trattative di governo fra i pentastellati e i leghisti. Ma dopo poco più di un anno, non si sa se più per stanchezza o per esaurimento delle scorte di pop-corn, da pur ormai ex segretario egli spinse il Pd a trattare con i grillini per sostituire al governo i leghisti. Che che si erano sfilati sbagliando modi e tempi della crisi.

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