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I magistrati e i documenti riservati fra Craxi e Nordio

Magistrati

La vecchia abitudine dei magistrati di sottrarre al governo il giudizio sui documenti riservati… I Graffi di Damato

La polemica più o meno diretta o a distanza fra il Guardasigilli Carlo Nordio e la magistratura, con velata minaccia di ricorso alla Corte Costituzionale, sulla titolarità del diritto di valutare la riservatezza di certi documenti – nel nostro caso, quello rivelato dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro al deputato e collega di partito  Giovanni Donzelli sul caso del detenuto anarchico Alfredo Cospito– mi ricorda una telefonata che nel 1985 l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi mi fece a casa da Bruxelles. Dove aveva appena appreso con stupore dalle agenzie stampa che mi trovavo da qualche giorno agli arresti domiciliari per avere pubblicato due anni prima sulla Nazione in versione integrale un documento sulle connessioni internazionali del terrorismo. Esso era stato confezionato dai servizi segreti e trasmesso dalla Presidenza del Consiglio dell’epoca, cioè da Amintore Fanfani, alla commissione parlamentare d’inchiesta sul delitto Moro. Che era composta naturalmente da senatori e deputati di ogni gruppo, di maggioranza e di opposizione.

Sottoposto subito ad indagine giudiziaria, con perquisizioni domiciliari e redazionali, consegna spontanea del documento prevenutomi da fonte che naturalmente mi rifiutai di rivelare e interrogatori condotti con l’iniziale domanda se avessi subìto “altre condanne”, quindi preannunciandomene una sicura, ero stato arrestato su richiesta di un sostituto della Procura di Roma convinto che io non fossi responsabile solo di violazione del segreto di Stato. Mi sospettava anche di depistaggio come promotore di interrogazioni parlamentari sulla vera natura di quel documento. Che io avevo pubblicato nella convinzione che non potesse essere più coperto da alcun segreto nel momento in cui era pervenuto ad una commissione di tanti parlamentari di ogni colore politico.

Non a caso, del resto, qualche mese dopo la diffusione sulla Nazione quel documento fu pubblicato in uno dei volumi conclusivi, e acquistabili come la Gazzetta Ufficiale, dell’inchiesta parlamentare come allegato ad una relazione di minoranza. Cosa, questa, che il mio avvocato fece presente alla Procura di Roma senza riuscire evidentemente a farle cambiare idea sull’inchiesta che continuava contro di me e, naturalmente, il direttore responsabile della testata fiorentina.

Craxi, che quel documento del resto conosceva bene avendolo letto dalla prima all’ultima parola prima di difenderlo in un comizio a Firenze durante la campagna elettorale del 1983 dall’annuncio delle perquisizioni e indagini condotte dalla Procura di Rona, mi chiese che “cazzo”- testualmente- fosse accaduto di nuovo da avermi procurato l’arresto, sia pure domiciliare. E mi preannunciò, sapendo bene che il mio telefono potesse essere intercettato, un intervento personale.

Titolare, per legge, del diritto di valutazione del segreto di Stato, Craxi di ritorno a Palazzo Chigi scrisse alla Procura Generale della Corte d’Appello di Roma chiarendo l’ovvio, cioè che il documento aveva perduto il suo carattere di segretezza nel momento in cui era arrivato alla commissione parlamentare per la quale era stato confezionato allo scopo di una valutazione dei collegamenti internazionali del terrorismo italiano, di sinistra e di destra.

Tornato a mia volta in libertà, per quanto allora definita “provvisoria”, attesi per un pò di conoscere la mia sorte giudiziaria. Ci volle un anno abbondante per ottenere il proscioglimento pieno, senza neppure il dibattimento pubblico, con una sentenza però velenosissima verso il presidente del Consiglio e i criteri adottati per desecretare praticamente il documento con effetto retroattivo, cioè dal momento in cui era pervenuto alla commissione parlamentare d’inchiesta. Dove evidentemente qualcuno aveva voluto farlo uscire disapprovando la decisione di non discuterlo, ed evitare imbarazzi a qualche parte politica, per il sopraggiunto scioglimento anticipato delle Camere. Che era stato provocato nel 1983 dalla Dc guidata da Ciriaco De Mita per interrompere la prima esperienza di un laico -il repubblicano Giovanni Spadolini- a Palazzo Chigi.

Craxi lesse con crescente stupore e malumore le critiche ricevute dalla magistratura obbligandola di fatto -si sosteneva- a prosciogliermi. E dovetti sudare le proverbiali sette camicie per indurlo a non fare ricorso, che avrebbe riaperto la mia vicenda giudiziaria in sede d’appello. Cosa di cui diffidavo temendo che un successivo presidente del Consiglio -già sentivo puzza di bruciato nei dintorni di Palazzo Chigi per la smania di De Mita di interrompere con elezioni anticipate anche la seconda esperienza non democristiana alla guida del governo- potesse reagire diversamente a richieste o sollecitazioni della magistratura. Gli subentrò in effetti Fanfani, che già la volta precedente aveva risposto alla magistratura sulla natura di quel documento in modo così evasivo da indurla a credere che fosse davvero segreto, anzi segretissimo. Ed era invece pubblicabile, e soprattutto discutibile in un dibattito parlamentare di fatto invece impedito.

Non so se questa mia esperienza può rivelarsi utile a Carlo Nordio nella contingenza attuale. L’ho voluta raccontare come testimone, a questo punto, pur sapendo che le circostanze e la stessa natura dei documenti in questione, per carità, sono diverse. I metodi tuttavia mi sembrano gli stessi.

 

Pubblicato sul Dubbio

 

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