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Il caso Verdini

Verdini

I Graffi di Damato. Festa al Fatto Quotidiano: Denis Verdini è finalmente e inattesamente in galera

A dispetto del Covid, delle eternamente penultime misure disposte dal governo per fronteggiarlo e persino dei risultati elettorali americani in arrivo, la notizia di giornata per me è la volontaria costituzione dell’ex senatore Denis Verdini nel carcere romano di Rebibbia dopo la condanna definitiva a 6 anni e mezzo in Cassazione per il crac del Credito Cooperativo Fiorentino, da lui presieduto per un ventennio.

Sono più gli anni nei quali si è sviluppata la vicenda, cominciata nel 2010 con una ispezione della Banca d’Italia, che quelli della condanna infine inflitta all’imputato. E ancor più del tempo che egli, sessantanovenne, è destinato a trascorrere materialmente in carcere, prima che al compimento dei 70 anni potrà cercare di accedere alle misure alternative.

Già questo è un aspetto quanto meno anomalo dell’avventura dell’ex senatore, passato dalle origini repubblicane, intese come partito, quello che fu di Ugo La Malfa e di Giovanni Spadolini, alla Forza Italia di Silvio Berlusconi, sino a diventarne il luogotenente, e ad una formazione quasi sua, chiamata Ala e sospettata, a torto o a ragione, di fiancheggiamento di Matteo Renzi degli anni d’oro, diciamo così, o almeno d’argento.

Ma di anomalie, si sa, è piena, anzi affollata la giustizia italiana. Che quanto più noto, importante, decisivo e politico è l’imputato finito sotto i suoi riflettori tanto più speciale e sorprendente diventa, come se tutto dipendesse più dal contesto che da altro. Sorprendente davvero, se alla vigilia del verdetto finale il giornale più informato dei processi italiani, più ancora di un Casellario, con predilezione per le posizioni dell’accusa, dava per scontato in prima pagina che l’imputato potesse “sfangarla ancora”. Alludo naturalmente al Fatto Quotidiano fondato da Antonio Padellaro uscendo dall’Unità e diretto da qualche tempo da Marco Travaglio, sconsolato – dal suo punto di vista – per la posizione assunta in Cassazione dall’accusa, cioè dalla Procura Generale, per niente convinta della colpevolezza, almeno per intero, di Verdini. Per il quale aveva pertanto proposto un nuovo processo d’appello, dopo quello che si era chiuso, fra l’altro, con l’imputato in lacrime che giurava di avere dato davvero tutto alla sua banca fallita, per niente gestita come il “bancomat personale” contestatogli sin dal primo momento dall’accusa.

Per una volta, pensate, Il Fatto è stato spiazzato non solo dalla Procura Generale della Cassazione ma poi anche dai giudici, che in qualche modo ne hanno paradossalmente contestato le  richieste prendendone il posto d’accusa. E ha potuto il giorno dopo titolare trionfalmente sulla condanna, aggiungendo “la cattiveria” di giornata del figlio che ha accompagnato il padre in carcere, invece del “preferibile” e potenziale genero, che è Matteo Salvini.

Tutto legittimo, per carità. Non è la prima volta che ciò è accaduto e non sarà – credo – neppure l’ultima. Ma proprio per questo, nel clima giudiziario arroventato dalla politica, non capisco l’ostinazione con  la quale i manettari diffidano a tal punto dei giudici che inorridiscono all’idea che le loro carriere vengano separate da quelle dei pubblici ministeri, ritenendo che ciò toglierebbe forza e autonomia a questi ultimi, a tutto vantaggio degli imputati. Che non a caso sono divisi dall’ormai fortunatamente ex magistrato Pier Camillo Davigo tra quelli che riescono disgraziatamente a farla franca, con l’assoluzione, e quelli che meritatamente non ce le fanno.

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