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Kabul vista dai giornali italiani

Kabul

I Graffi di Damato. Si scopre l’acqua calda a Kabul tra le barbe e i kalashnikov dei talebani

Ora tutto si è davvero consumato. Persino Kabul si è consegnata ai talebani mentre il presidente dell’Afghanistan Ashraf Ghani fuggiva chissà dove dopo sette anni di mandato e un’infinità di visite all’estero, anche al Quirinale da Sergio Mattarella, dando pure a lui del suo Paese una rappresentazione – temo – a dir poco irrealistica, dicendo più ciò che i suoi interlocutori occidentali volevano ascoltare per consolarsi dei soldi spesi e delle vittime subìte nelle loro missioni. Ora Kabul assomiglia davvero alla Saigon del 1975, dove gli americani servivano solo ad aiutare a scappare gli ultimi che avevano creduto in loro. I talebani non hanno dovuto sparare neppure un colpo delle loro armi, o perdere un pelo delle loro nerissime barbe, per accomodarsi nel palazzo presidenziale della capitale afghana e accreditare l’attesa della rinascita dell’”Emirato islamico”.

Anche noi italiani, diciamo la verità, ci abbiamo messo del nostro, pur con la solita aria un po’ defilata di “brava gente”, più da soccorritori che da guerrieri, in questa tragedia mista di presunzione e conformismo. Che ci faceva liquidare anche il migliore e compianto Gino Strada come un mezzo vigliacco o, addirittura, un traditore, un colluso col “nemico”.

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E’ difficile, diciamo pure impossibile, non riconoscersi nelle parole dello storico inviato della Stampa Domenico Quirico quando scrive, come ha fatto non più tardi di ieri, che a leggere e addirittura capire l’Afghanistan “ci bastavano le fotografie di barbuti avvolti in clamidi miserande, in pose minacciose con i loro Kalashnikov”, per cui “non ci siamo mai veramente occupati di chi siano gli afghani” e di quali fossero e siano tuttora “i loro guai”. Che d’altronde non erano “la ragione per cui eravamo andati” in quelle terre a dare il nostro contributo, anche di sangue, oltre che di incompetenza o approssimazione, ad un’azione di ritorsione alternata a educazione ad una democrazia, la nostra, da esportazione. Ma della quale – diciamoci la verità – neppure noi occidentali sappiamo fare buon uso a casa nostra, visti i pasticci che riusciamo a fare tra leggi elettorali sbagliate e inseguimenti del populismo di turno, anche se questa l’inviato della Stampa ce l’ha risparmiata nella sua spietata analisi.

Ora che tutto, come scrivevo all’inizio, si è davvero consumato a Kabul come non era forse difficile prevedere, pur condividendo, per carità, le grida d’aiuto che si sono levate laggiù in questi giorni, e non rifiutando il soccorso che ci viene chiesto sia da chi ha voglia di fuggire sia da chi ha il coraggio di restare, riconosciamoci pure con onestà e semplicità nella constatazione di Quirico che “il fondamentalismo è una componente chiave delle élite afghane”, o che “i taleban sono una parte dell’Afghanistan”.

Ma solo dell’Afghanistan? Mi chiedo pensando ai populismi nostrani che, con esplicito riferimento ai pentastellati di conduzione grillin-contiana piuttosto che ai leghisti, l’ottimismo “corso-trasteverino” di una tosta e simpaticissima Marcelle Padovani ha visto in ritirata, se non sconfitto, in una bella e incantevole intervista a Repubblica pubblicata ieri sui suoi 50 anni trascorsi in Italia come in un continuo “laboratorio” sociale e politico. Di cui neppure noi secondo Marcelle – che ancora non ci perdona di avere sottovalutato e trattato male Giovanni Falcone nella sua esemplare lotta alla mafia – mostriamo di essere consapevoli, pur essendone gli attori, anzi i protagonisti.

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