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La falegnameria di Bettini

Bettini

I Graffi Damato su quel traballante tavolo a tre gambe nella falegnameria di Goffredo Bettini

Non credo che Goffredo Bettini, il grande suggeritore di Nicola Zingaretti, o l’uomo che sussurra ai  cavalli del Pd provenienti – come vedremo – dalla scuderia comunista, abbia fatto un buon servizio all’alleanza attuale di governo, che gli sta tanto a cuore, paragonandola ad un’alleanza “a tre gambe”, come ha scritto sul Foglio in un saggio, memoriale o com’altro si preferisce chiamarlo. I tavoli a tre gambe, peraltro, non ispirano il massimo della stabilità. E si prestano più a una seduta spiritica che ad un pranzo.

Una gamba dell’alleanza con i grillini da trasformare da tattica a strategica, o organica, ed estendere in periferia sarebbe naturalmente quella degli stessi grillini, pur ancora divisi su questa prospettiva, come dimostra il risultato a dir poco effimero del referendum digitale del 13 agosto, che sembrava avere dato via libera all’operazione. Le resistenze locali sotto le cinque stelle si sono rivelate più forti di quanto previsto dagli stessi promotori del referendum improvvisato, che ne hanno poi significativamente ridimensionato la portata dicendo – come ha fatto il “reggente” Vito Crimi – che esso riguardava in realtà “le pratiche”, cioè le situazioni, di soli cinque comuni interessati alle elezioni amministrative del 20 settembre, dove i grillini volevano evidentemente essere autorizzati a trattare accordi con “altri partiti tradizionali”.

L’altra gamba dell’alleanza coltivata da Bettini nel suo orto – o falegnameria –  sarebbe il Pd inteso  però come “sinistra”, comprensiva dei “liberi e uguali”  dei vari Bersani, D’Alema e Speranza usciti dal partito allora guidato da Renzi, nel 2007. È un Pd quindi, quello coltivato – ripeto – da Bettini, tutto sbilanciato a sinistra, senza più la “vocazione maggioritaria” del fondatore e primo segretario Walter Veltroni: un partito insomma più erede del Pci che della Dc, da cui invece proviene buona parte  di chi adesso ne fa parte. Penso, ad esempio, a Dario Franceschini, capo della delegazione piddina al governo. O ad Andrea Marcucci, capogruppo del Pd al Senato, o a Giuseppe Fioroni.  I quali – guarda caso – si sono affrettati, usando proprio Il Foglio, ad annunciare e spiegare il loro dissenso da Bettini. Che nell’articolazione  dell’alleanza di governo ora guidata da Giuseppe Conte ha affidato la terza gamba, quella “moderata”, a Matteo Renzi rivalutandone la figura e augurandogli di uscire presto dalle ristrettezze, chiamiamole così, dei sondaggi che gli danno solo il 2 o il 3 per cento, e non il 10 di cui avrebbe bisogno per diventare una gamba vera dell’alleanza, e non uno stecchino.

I renziani hanno naturalmente ringraziato immediatamente Bettini riconoscendogli il merito  – ha detto Davide Faraone – di avere in pratica dato ragione al senatore di Scandicci e alla sua scissione dell’anno scorso, compiuta capendo, intuendo, prevedendo, come preferite, lo spostamento a sinistra cui era destinato il Pd di Zingaretti nel nuovo corso politico  avviato per evitare le elezioni anticipate a sicura vittoria di un centrodestra a forte trazione leghista. Ma quanti – ripeto, come Marcucci e Fioroni – sono rimasti  nel Pd pensando che potesse e dovesse continuare a rappresentare anche i moderati, nella visione veltroniana e rutelliana di un partito nato dalla fusione fra i Ds-ex Pci e la Margherita, si trovano malissimo nell’orto di Bettini. E potrebbero togliere il disturbo non per rafforzare la gamba di Renzi ma per far cadere il tavolo a tre gambe, con tutto quello che vi è stato nel frattempo apparecchiato sopra.

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