Polemiche sul numero 2 del Csm dopo l'incontro con la premier Meloni, ecco cosa è…
Ecco come va riformato il lavoro. Intervista a Pietro Ichino
Quattro i temi caldi della politica del lavoro e del welfare del Governo e del Pd: povertà, salario minimo, settimana di quattro giorni e jobs act
Sono tanti i temi che animano il dibattito intorno al mondo del lavoro. Gli sconvolgimenti della pandemia hanno reso familiari espressioni come “smartworking” o “great resignation”. Se l’ondata pandemica sembra essersi esaurita, non sono passate, invece, le nuove esigenze e le storture sulle quali una condizione estrema, come la pandemia, ha puntato l’attenzione. La politica deve confrontarsi oggi con la lotta alla povertà, al lavoro povero e con le esigenze di una più efficace conciliazione tra vita privata e vita professionale. Di tutti questi argomenti ne abbiamo parlato con il prof. Pietro Ichino, giuslavorista presso l’Università di Milano.
Professor Ichino, cosa ne pensa della sostituzione del Reddito di Cittadinanza con la MIA (acronimo che potrebbe diventare GIA) dal prossimo settembre?
Incominciamo dal nome: sarei infastidito dal terzo cambiamento della denominazione di questa misura assistenziale in sei anni, se non fosse che l’espressione “reddito di cittadinanza” è proprio sbagliata.
Perché sbagliata?
Perché allude a un diritto all’erogazione condizionato al solo fatto di essere cittadini italiani, alludendo ai grandi progetti ispirati all’idea del basic income, mentre il beneficio è in realtà condizionato all’esistenza di uno stato di bisogno. Dunque c’entra poco con l’idea del basic income.
Però i grandi progetti ispirati all’idea del basic income non sono mai stati realizzati.
La sola esperienza di quel genere è quella dell’Alaska, dove da decenni è in vigore un’“imposta negativa” – fino a qualche tempo fa di 400 dollari al mese, ora di 200 – finanziata con le royalties incassate dallo Stato sull’estrazione di petrolio e gas. Però l’Alaska ha solo settecentomila abitanti. E ha l’esigenza di attirare persone disposte a trasferire lì la residenza, nonostante che d’inverno la temperatura scenda stabilmente molto al di sotto dello zero per una parte della stagione non si veda il sole, perché metà del territorio è a nord del Circolo polare.
Veniamo alla sostanza. Come giudica le modifiche apportate dal Governo Meloni a questa misura di assistenza ai più poveri?
Il difetto principale che vedo nella disciplina vigente sta nell’assenza di una vera ed efficace condizionalità del beneficio. E non mi sembra che le modifiche decise dal Governo correggano questo difetto: non lo affrontano proprio.
Però le nuove misure contengono un giro di vite sull’obbligo di accettare l’“offerta congrua” di lavoro da parte dei cosiddetti “occupabili”.
Appunto: il Governo continua a imperniare il sistema della condizionalità sull’“offerta congrua”, mostrando di non accorgersi di quello che gli osservatori più attenti denunciano ormai da tempo: l’“offerta congrua” non esiste. Nessuno in Italia ha mai perso né questo sussidio assistenziale, né il trattamento di disoccupazione di natura assicurativa, per aver rifiutato un’offerta di lavoro propostagli dal Centro per l’Impiego e considerata “congrua”. Perché nessun imprenditore formalizza una proposta di assunzione rivolta a una persona poco motivata a svolgere il ruolo offerto.
Professor Ichino il Jobs Act del 2014-15 è nato dalla sua proposta del “Codice semplificato del lavoro”. Come valuta, a 15 anni di distanza, i risultati di quella riforma?
Veramente il mio progetto del “Codice semplificato del lavoro” è stato recepito soltanto in parte: precisamente nei decreti legislativi n. 23 e n. 81 del 2015. il primo è il decreto che ha riformato la disciplina dei licenziamenti, il secondo è il decreto che qualcuno chiama “codice dei contratti”, contenente la nuova disciplina delle collaborazioni continuative, dell’apprendistato, dei contratti a termine, a part-time, a chiamata, in somministrazione. Di questi due decreti do un giudizio molto positivo: hanno armonizzato il nostro diritto del lavoro rispetto a quello degli altri Paesi maggiori della UE…
… ma gli oppositori imputano a questi decreti di avere precarizzato il lavoro.
Questa accusa è un luogo comune totalmente privo di fondamento: la probabilità di essere licenziati è rimasta la stessa prima e dopo la riforma; e la quota della forza-lavoro italiana con contratto a termine è stabilmente in linea con la media dei Paesi UE: circa una persona su sei.
Però la Corte costituzionale è intervenuta tre volte in otto anni a correggere la nuova disciplina dei licenziamenti.
Si è trattato di correzioni tutto sommato marginali: quello che più conta è che la Consulta ha confermato la scelta fondamentale compiuta dal legislatore, cioè il passaggio da un regime ispirato al principio della job property, quello che domina nel settore dell’impiego pubblico, di fatto applicabile e applicato soltanto a metà della forza-lavoro, a un regime basato sull’indennizzo del lavoratore quando il giudice ritiene il licenziamento non sufficientemente motivato.
Professor Ichino, lo scorso gennaio abbiamo avuto il record degli occupati ma, come ha detto il Presidente dell’INPS Pasquale Tridico, abbiamo 800mila attivi in meno rispetto a 4 anni fa. A questo si aggiunge che molti datori di lavoro lamentano di non riuscire a trovare manodopera. Ci aiuta a districare questo rebus?
Che le imprese incontrino da tempo una difficoltà crescente nel trovare le persone di cui hanno bisogno, in tutte le fasce professionali, è una realtà osservata da tempo, da cui deriva la necessità di guardare al mercato del lavoro in modo molto diverso rispetto al secolo passato. A questo fenomeno tre anni fa ho dedicato un libro – L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore (Rizzoli, 2020) – per avvertire che le tecniche di protezione del lavoro non possono più essere quelle del Novecento.
Può chiarire meglio?
Nella maggior parte dei casi il problema oggi non è costituito dal difetto della domanda di manodopera rispetto all’offerta, bensì dal difetto dei servizi capaci di attivare i percorsi capaci di mettere in comunicazione l’offerta con la domanda. Sono i servizi moderni di orientamento, informazione, formazione mirata agli sbocchi esistenti, dei quali il mercato del lavoro italiano dovrebbe essere innervato almeno come quello dei Paesi del Centro e Nord-Europa, e che invece nella maggior parte del nostro Paese sono ancora all’anno zero.
Quali sono i temi legati al lavoro prioritari sui quali dovrebbe proporre una propria visione alternativa il PD di Elly Schlein?
Il primo è proprio questo: lo scandalo degli enormi giacimenti occupazionali che in Italia restano inutilizzati per l’incapacità del sistema di attivare i percorsi di cui si è detto, di incentivare le persone ad avvalersene e sostenerle nella transizione. Che è poi un’altra faccia dello scandalo di un Paese nel quale, se si tolgono dal conto i 4 miliardi del PNRR, per le c.d. “politiche attive” del lavoro si spende un centesimo di quel che si spende per le “politiche passive”: cioè i sussidi a chi perde il lavoro o non lo trova.
Professor Ichino tra le priorità del nuovo Pd in materia di lavoro non dovrebbe esserci anche il salario minimo?
Ne sono sempre stato convinto. Questa misura era contenuta nella legge-delega del Jobs Act, n. 183/2014, ma la delega non venne poi esercitata dal Governo. Però si tratta di una misura che può avere solo effetti marginali: è sbagliato pensare che essa possa risolvere il problema dei bassi salari, del lavoro povero.
Come si deve affrontare invece, secondo lei, questo problema?
Lo si deve affrontare favorendo l’aumento della produttività del lavoro, senza il quale non si può avere un aumento delle retribuzioni. E l’aumento di produttività si ottiene favorendo, incentivando e sostenendo con percorsi di formazione adeguati il trasferimento delle persone dalle imprese poco produttive a quelle più capaci di valorizzare il loro lavoro; ma anche attirando gli investimenti delle grandi multinazionali, che sono mediamente molto più capaci delle imprese indigene di rendere il lavoro più produttivo. È, al tempo stesso, un problema di politica del lavoro e di politica industriale.
Come valuta l’idea della settimana di quattro giorni? Che effetti avrebbe secondo lei sulla produttività?
Di questa ipotesi di organizzazione e distribuzione dell’orario di lavoro si possono ipotizzare tre versioni. La meno incisiva consiste nel mantenimento dell’orario normale attuale, distribuito però su quattro invece che su cinque giorni: dunque nove o dieci ore al giorno per quattro giorni; poi si può pensare all’orario normale attuale distribuito su quattro giorni e ridotto di quattro ore: dunque nove od otto ore al giorno per quattro, con corrispondente riduzione della retribuzione; infine si può pensare alla stessa riduzione di orario e mutamento della sua distribuzione nella settimana, dunque con tre giorni di riposo, ma a parità di retribuzione.
Qual è la migliore delle tre?
Non lo si può stabilire in astratto: dipende dal contesto, dal tipo di attività aziendale, dalle preferenze dei lavoratori, che possono essere molto diverse da caso a caso. In generale sono più gli uomini che le donne a essere interessati alla distribuzione dell’orario su quattro giorni. È il motivo per cui credo che abbia ragione la Cisl quando sottolinea che questa non è una misura suscettibile di essere imposta per legge, e neppure mediante contratto collettivo nazionale. Deve essere la contrattazione aziendale ad attivarla, dove le parti concordino su di essa, nella versione più adatta alla situazione specifica. L’imposizione generalizzata può fare solo danni.
Professor Ichino, nel 2020 il nostro Paese è stato costretto ad adottare massicciamente il lavoro da remoto, meglio conosciuto come smart working. Ora si sta tornando indietro. Perché non ha convinto le aziende e le amministrazioni pubbliche?
Quello che è accaduto durante la pandemia, tra il 2000 e il 2022, non può essere indicato tutto come lavoro agile o smart working: perché in molti casi non ve ne erano le premesse di fatto, le condizioni indispensabili.
A che cosa si riferisce?
Non può esserci vero smart working se la persona interessata non dispone di una connessione web e di una attrezzatura informatica appropriata, oppure non dispone di uno spazio adeguato alle esigenze del lavoro specifico presso la propria abitazione, se i data-set aziendali non sono accessibili da remoto, se la struttura del rapporto contrattuale non può essere adattata alle esigenze di questa forma di organizzazione del lavoro, cioè l’oggetto della responsabilità del prestatore non è suscettibile di essere trasferito dalla pura e semplice estensione temporale della prestazione a un risultato misurabile altrimenti. Perché nello smart working vero e proprio l’attività lavorativa è svincolata non solo da ogni coordinamento spaziale, ma anche da ogni coordinamento temporale.
Dunque, se non era smart working che cos’era?
In molti casi lo era; e l’emergenza pandemica ha costretto aziende e dipendenti a compiere questa esperienza scoprendone i notevolissimi vantaggi e potenzialità. In molti altri non lo era: venuta meno l’emergenza si è dunque tornati al modello tradizionale di organizzazione del lavoro. È questo il caso soprattutto di molte amministrazioni pubbliche.
Più che nelle aziende private? Perché?
Perché nel settore pubblico più che in quello delle imprese private manca l’accessibilità da remoto dei data-set aziendali; e la cultura del lavoro – sia dal lato del management, sia dal lato dei sindacati e delle persone interessate – è ancora molto lontana dalla maturazione necessaria per spostare la responsabilità contrattuale del prestatore dall’estensione temporale della prestazione a un risultato misurabile altrimenti. È questo il motivo per cui nel settore pubblico è accaduto molto più diffusamente rispetto a quello privato che il regime di lavoro da remoto imposto dall’emergenza sanitaria si sia tradotto in realtà in un regime di non lavoro, con drastico aumento degli arretrati e peggioramento della quantità e della qualità del servizio ai cittadini.