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Le scommesse di Scalfari

Scalfari

I Graffi di Damato. Le fiches di Eugenio Scalfari al Casinò della democrazia italiana

Premessa, anzi ribadita, l’ammirazione che si deve a Eugenio Scalfari – al netto di ogni possibile dissenso, e nonostante la pesante ironia riservatagli oggi da Marco Travaglio – per l’impegno col quale continua a seguire a 97 anni appena compiuti quella cosa complicatissima che è la politica italiana, mi sono interrogato sull’ottimismo espresso ieri su Repubblica, pur tra qualche preoccupazione, sulle sorti della nostra democrazia. Che Ilvo Diamanti ritiene invece “sospesa”, o “dei presidenti”. Non mi bastano, francamente, i “nomi”, pochissimi, che secondo Scalfari la “rinforzano” in questi tempi difficili. Sono quelli di Sergio Mattarella, di Mario Draghi, di Giuseppe Conte e del Pd: quasi tre fiches al banco del casinò politico d’Italia.

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Pur col rispetto che merita pure lui, per carità, e sempre al netto del dissenso da qualche sua scelta, il buon Mattarella è all’ultimo anno del mandato quirinalizio. Del quale al massimo si può sperare che il Parlamento gli offra, e lui accetti, una sostanziale breve proroga, al pari di ciò che accadde nel 2013 con Giorgio Napolitano, come ha giustamente ricordato Scalfari, quando il Parlamento di allora si bloccò rovinosamente nella ricerca di un successore. Non è detto, in effetti, che non si ripetano inconvenienti anche in queste Camere, che rispetto alle precedenti hanno l’handicap ulteriore di una sostanziale delegittimazione derivante da una riforma costituzionale che le vedrà rinnovate dopo un anno con 345 seggi in meno: non proprio bruscolini, direi. E con quali effetti sulla reale rappresentatività parlamentare, con tutte le evoluzioni in corso sul piano politico e su quello normativo, se mai si riuscirà ad aggiornare per l’ennesima volta la legge elettorale, nessuno francamente è in grado di prevedere.

Mario Draghi ha la forza, certo, ma anche la debolezza di essere una riserva personale della Repubblica: personale, perché dietro di lui non c’è un partito. E la maggioranza che lo sostiene in Parlamento è paradossalmente tanto larga quanto labile perché c’è sempre chi lo strattona da una parte e dall’altra, spero non sino al punto di spazientirlo, prima o poi, e di fargli mandare tutti a quel paese, a cominciare da quelli che reclamano da lui “date” come coriandoli ai quali appendere speranze e calcoli di ogni tipo.

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Si, è vero, Scalfari ha scritto che dietro Draghi si può intravvedere il Pd per “concordanza di vedute e di azioni politiche”, di cui lo stesso Scalfari sente tuttavia di “non capire fino a che punto” si possa rendere conto il presidente del Consiglio, tanto debole evidentemente appare in fondo anche a lui questa convergenza “sostanziale”. D’altronde, del Pd Scalfari è costretto a riconoscere che “soffre di alcune divisioni interne”. Che temo non siano destinate a ridursi con la corrente in arrivo di Goffredo Bettini, messosi a disposizione del nuovo segretario Enrico Letta – ha detto al Corriere della Sera – “nei modi più opportuni”. Tali però non mi sembrano quelli suggeritigli rimpiangendo Giuseppe Conte a Palazzo Chigi e dicendo che “non è caduto, ma è stato fatto cadere” per ragioni e con metodi su cui “indagare”.

Proprio per come la mette Bettini, e per la sopravvalutazione fattane da Zingaretti prima di dimettersi, o dimettendosi di conseguenza, non mi sembra francamente che Conte sia in grado di “rafforzare la democrazia” neppure nella veste assegnatagli da Beppe Grillo di rifondatore e capo del caotico movimento delle 5 Stelle, sempre più vicino ormai al collasso da scissione, o viceversa.

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