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Le sintonie Zingaretti-Letta
Il Pd fra le parole di Enrico Letta e i fatti di Nicola Zingaretti. I Graffi di Damato
Complice questa maledetta pandemia, che ne riduce i tempi e altera spesso i confronti con le modalità dei rapporti a distanza, sino a vanificarli, il cambio della guardia al vertice del Pd è maturato senza che si siano potute discutere e capire bene le ragioni delle improvvise dimissioni del segretario Nicola Zingaretti, pur motivate ufficialmente da una rappresentazione devastante delle condizioni del partito. Che affidandosi a Enrico Letta si è in qualche modo imbavagliato da solo, e con un certo sollievo. Né c’è da sperare che a riempire il vuoto dell’Assemblea Nazionale possa essere la parola passata dal nuovo segretario ai circoli, in uno dei quali, il più vicino a casa sua, egli sé è già fatto vedere e fotografare senza alcun imbarazzo con una specie di richiamo festoso ai “cocci” che ha ereditati.
L’argomento di discussione, peraltro anche nei circoli destinata a subire le modalità riduttive dell’emergenza virale, tra mascherine e distanze, è già diventato un altro. Si discute del e col nuovo segretario, non certo del e col predecessore. Che, sornione, più furbo del fratello pur commissario Montalbano, può ben ritenersi soddisfatto di essersi sottratto ad un dibattito che avrebbe potuto imbarazzarlo. Da potenziale imputato, visto il sostanziale discredito procurato al partito rappresentandolo come un nido di vipere, quale altro non potrebbe essere perché dilaniato da correnti talmente affamate di potere da far provare “vergogna” anche chi ha avuto evidentemente la disavventura di guidarlo per un bel po’ di tempo, Zingaretti ha potuto diventare il sostanziale e benemerito regista dell’elezione del suo successore, sponsorizzato come “il più forte”, il migliore e quant’altro disponibile sulla piazza. Cui in fondo le correnti hanno riservato un’accoglienza o disponibilità tale da riscattarle dal giudizio dell’ex segretario, o da smentirlo. Curioso, no? Sì, assai curioso, direi.
In una situazione o in un quadro così paradossale tutti possono immaginare quello che vogliono, anche che Enrico Letta si sia prestato a coprire un’operazione di raffinato o spregiudicato depistaggio, quale è stata, per esempio, attribuita a Zingaretti sul Foglio da Salvatore Merlo. Che ha forse incoraggiato Giuliano Ferrara a quell’intervento agrodolce in cui l’ex presidente del Consiglio è stato esortato a non sprecare l’autorità, il prestigio e quant’altro è riuscito a procurarsi nel suo dorato esilio parigino dopo essere stato defenestrato da Palazzo Chigi nel 2014.
In particolare, uno Zingaretti luciferino sarebbe riuscito con le sue improvvise dimissioni a togliere al pericoloso concorrente Stefano Bonaccini, apprezzato presidente della regione Emilia-Romagna, il tempo che gli occorreva per preparare la propria candidatura alla segreteria nella prospettiva di un congresso anticipato. E portando Enrico Letta al vertice ha salvaguardato, anzi salvato, la propria incidenza nel partito, propostasi annunciando di volere continuare ad esserci. E non senza far nulla, ma continuando a portare avanti la sua linea politica di alleanza praticamente ad ogni costo con i grillini. Che non a caso da presidente della regione Lazio l’ex segretario del Pd ha appena portato in giunta. Egli ha scommesso su un rapporto con le 5 Stelle, e con Giuseppe Conte come nuovo fiduciario di Beppe Grillo, che gli possa procurare vantaggi personali, diciamo così, nella prossima legislatura: Palazzo Chigi o dintorni. Un genio, questo Zingaretti, se i fatti naturalmente gli dovessero dare ragione, a dispetto dei sondaggi per ora avari col Pd.