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Le romanzate italiane sull’arresto di Messina Denaro

Travaglio Savino Messina Denaro

I graffi di Francesco Damato rimangono sulla notizia storica dell’arresto di Matteo Messina Denaro

A leggere i romanzi d’appendice, a dir poco, che sulla sua cattura si stanno sprecando sui giornali di un pò tutti i colori, a dire il vero, e non solo quelli dichiaratamente antigovernativi, Matteo Messina Denaro non è stato solo il criminale ricercato per 30 anni, ma ancor più  un autentico coglione. E scusate la parolaccia. Che  egli si merita -sempre che non lo si voglia accusare di autotradimento o autolesionismo, oltre che di stragi e di tutto il resto per cui è stato processato e condannato- per non avere saputo raccogliere i segnali di pericolo lanciatigli da varie parti. Da quel tale, per esempio, che già a novembre, ospite di Massimo Giletti, avvertì che il superboss era ormai arrivato al capolinea della latitanza perché la mafia aveva praticamente deciso di scaricarlo per trattare con lo Stato sul cosiddetto ergastolo ostativo. Che  pesa su troppi detenuti mafiosi a dispetto di tutte le garanzie imposte a loro vantaggio addirittura dalla Costituzione.

Ma ancor più dell’ospite di Giletti sarebbe stato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, per forza di cose informato dei preparativi della cattura,  ad avvisare inutilmente il coglione -ripeto- esprimendo l’augurio di coronare la sua carriera di prefetto e ora anche di politico apponendosi sul petto la medaglia metaforica dell’arresto di quel pericoloso criminale. Il quale, anziché allertarsi e sfuggire all’assedio ormai così chiaramente annunciatogli, ha continuato a lucidarsi l’orologio al polso del valore di oltre trentamila euro, a infoltire il proprio guardaroba di lusso, a imbottirsi di viagra, a collezionare preservativi per attutirne gli effetti e naturalmente a curarsi per le malattie augurategli con successo dalle sue tante vittime.

Del resto, che l’uomo fosse feroce ma non all’altezza del ruolo conquistato nella mafia lo fece capire il predecessore ed ex istruttore Totò Riina parlando in carcere con i suoi interlocutori di turno nell’ora d’aria, intercettati grazie al fatto che Carlo Nordio allora non immaginava neppure di poter diventare ministro della Giustizia e proporsi le nequizie anti-intercettative ora attribuitegli dagli avversari.

Perché poi continuare a chiamare questo criminale con tutti i nomi che gli spettano sprecando spazio nei titoli e non ridurlo alla sigla o targa MMD assegnatagli dal Fatto Quotidiano con tanto di vignetta sovrastante che lo rende metà lui e metà Silvio Berlusconi? Al cui “Album di famiglia” -titolo dell’editoriale di giornata- MMD e affini apparterrebbero come a suo tempo i brigatisti rossi al Pci, secondo una celebre denuncia di Rossana Rossanda sul manifesto, a commento del sequestro di Aldo Moro e dei comunicati che ne accompagnavano la prigionia propedeutica all’assassinio finale.

Pure Roberto Saviano si è preso dal Fatto Quotidiano il cazziatone d’obbligo -altra parolaccia di cui mi scuso- per avere definito quello della Meloni il governo meno antimafioso o più limitrofo alla mafia ignorando quelli guidati personalmente da Berlusconi.

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