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Pd in bilico

PD

I Graffi di Damato. Troppa o finta l’ingenuità del dimissionario Nicola Zingaretti

Più passano i giorni dell’annuncio delle dimissioni del segretario del Pd, più si avvicina l’appuntamento con l’Assemblea Nazionale di sabato prossimo e meno se ne capiscono, francamente, le ragioni di fronte alle spiegazioni che via via ne ha date e ne dà lo stesso Nicola Zingaretti. Che, diviso più o meno metaforicamente nelle ultime 24 ore fra Barbara D’Urso sulla Tv, le sardine di Santori al Nazareno e i vaccinandi alla stazione Termini di Roma,   tornato sulle critiche ai dirigenti di partito che lo avrebbero costretto al clamoroso strappo, compiuto però a fin di bene, per dare al Pd la scossa necessaria e farlo magari rifondare. Non so francamente da chi, alla maniera di ciò sta accadendo nel MoVimento 5 Stelle fra Beppe Grillo e Giuseppe Conte, sorpresi insieme dal fotografo sulla sabbia di Bibbona.

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Di un uomo cresciuto in politica mangiando pane e cicoria, come una volta disse Francesco Rutelli volendosi descrivere nel rapporto quotidiano con l’asprezza della politica, si può capire uno scatto d’ira con quella “vergogna” gridata contro il correntismo, il poltronismo e quant’altro del suo partito: frutto peraltro di una fusione a freddo fra i resti del Pci e della sinistra democristiana definita subito da Massimo D’Alema “un amalgama mal riuscito”. Si capisce meno però l’insistente confusione di Zingaretti, seguita a quello scatto, tra polemica e aggressione, critica e “martellamento”. Che è il termine da lui adoperato per descrivere il trattamento subìto nel partito dopo la chiusura della crisi con la formazione del governo di Mario Draghi.

Se la stessa confusione l’avessero fatta, ai loro tempi, i segretari del Pci, da cui proviene Zingaretti, e della Dc, da cui proviene una buona parte dei suoi attuali compagni, forse anche di corrente, quei due partiti non avrebbero vissuto così a lungo. Nell’uno e nell’altra, per quanto nel Pci vigesse una disciplina che in qualche modo ne riduceva la trasparenza, la politica non è mai stata ciò che si chiama un pranzo di gala.

Ebbene, Zingaretti ha avuto la disinvoltura, a dir poco, di lamentarsi di un “pluralismo” o di un “confronto” tradotto dai suoi critici nella “polemica” o nella “furbizia”. Neppure la polemica, allora, si può fare in un partito con un segretario di cui non si condivide la linea o, più in particolare, una scelta? E dov’è scritto che la furbizia sia incompatibile con la politica? Qui c’è troppa ingenuità per essere presa per buona.

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Il segretario dimissionario del Pd può lamentarsi a ragione delle critiche formulate alla sua gestione della crisi anche da quelli che nelle sedi opportune l’hanno a suo tempo approvata, tenendosi per sé le eventuali riserve per vigliaccheria o furbizia, appunto. Ma deve farne anche i nomi, come lo ha sfidato sul Mattino Umberto Ranieri pur chiamandolo amichevolmente Nicola. E non può francamente negare di avere drammatizzato il sostegno a Giuseppe Conte. Non ha detto “Conte o morte” – è vero, come ha osservato nel collegamento televisivo con la D’Urso – ma politicamente gli è molto assomigliato, quanto meno, quel “disastroso Conte o elezioni” rimproveratogli anche da Ranieri.

Questo è tanto vero che il politologo Piero Ignazi su Domani, il nuovo quotidiano di Carlo De Benedetti, glielo ha rinfacciato, dal versante opposto, contestando la sua pronta adesione al governo Draghi. Cui egli avrebbe dovuto continuare a preferire le elezioni scontrandosi direttamente anche col presidente della Repubblica: l’unico a poter sciogliere anticipatamente le Camere.

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