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reddito di cittadinanza Stefano toso

Sostituire il Reddito di cittadinanza non basta. Parla il prof. Toso

Il Reddito di cittadinanza non esiste più, a sostituirlo l’Assegno di inclusione e il Supporto per la Formazione e il lavoro. Conversazione con il prof. Stefano Toso, docente dell’Unibo

In questi giorni iniziano a entrare in vigore le norme sul Reddito di Cittadinanza e, come dice la premier Meloni in un video su Instagram, “il governo non intende tornare sui suoi passi”. L’obiettivo del governo è “passare dal reddito di cittadinanza al reddito di occupazione, quello che si ottiene grazie al lavoro”. Un obiettivo senza dubbio ambizioso ma non sempre e non per tutti realizzabile. Del resto a sostituire il Reddito di cittadinanza ci saranno altre due misure, l’Assegno di inclusione e il Supporto per la formazione e il lavoro. Provvedimenti che interesseranno, però, solo una parte degli attuali percettori del reddito di cittadinanza.

Di tutto questo ne abbiamo parlato con il prof. Stefano Toso, ordinario presso il dipartimento di di Scienze Economiche presso l’Università di Bologna.

È stata superata la stagione del Reddito di cittadinanza oppure ha solo cambiato nome?

Allora per alcuni versi è stata superata, per altri no. L’Italia torna ad avere una misura di reddito minimo, riservata ai poveri che, però, è condizionato al fatto di appartenere ad alcune categorie. Il beneficio è dedicato ai nuclei in cui sono presenti disabili o minorenni o sessantenni. Questo per il nuovo assegno di inclusione. Con il Reddito di cittadinanza, invece, l’Italia era arrivata ad avere, ultima in Europa, una misura di reddito minimo, ossia una misura, rivolta ai poveri in quanto tali, non in quanto anche anziani o disabili, o appartenenti a categorie particolari.

E questa riforma fa a fare un passo indietro all’Italia?

Sì, è questo è l’aspetto più grave. L’Italia era arrivata a una forma di reddito minimo, alla stregua di quella presente in tutti gli altri paesi europei, solamente di inclusione governo Gentiloni, che ha avuto vita breve ed era sottofinanziato. Poi c’è stata la stagione del Reddito di cittadinanza, in cui si è buttato il cuore oltre l’ostacolo, è stata una misura con dei difetti ma ha avuto il merito importante di riservare un ammontare di denaro molto rilevante per i poveri, cosa che tutti gli altri paesi europei hanno già da decenni. In Inghilterra esiste dal 1948, in Francia dai tempi di Mitterand. Con la cancellazione del Reddito di cittadinanza si fa un passo indietro, perché riporta l’Italia a una situazione in cui l’aiuto ai poveri ha una natura categoriale: per essere beneficiari di misura di questo tipo si deve appartenere a categorie particolari.

Potrebbe esserci anche un passo in avanti?

Sì, la seconda gamba della riforma, il supporto per la formazione al lavoro, riuscirà davvero ad attivare i beneficiari. Perché, purtroppo, il Reddito di cittadinanza si è rivelata una misura assistenzialistica e non in grado di riattivare chi non aveva lavoro.

Crede che sia questo l’aspetto in cui il Reddito di cittadinanza è stato più carente?

Certamente, però le dico anche un’altra cosa. I paesi in cui la pubblica amministrazione è più efficiente, e quindi penso ai paesi scandinavi, ma anche la Germania, la Francia, la quota di beneficiari di una misura come il Reddito di cittadinanza che trovano lavoro grazie alle politiche attive è comunque una quota molto bassa. Quindi da queste misure non ci si deve aspettare la luna. Purtroppo, chi fa domanda per questo tipo di istituti ha un’istruzione molto bassa, vive in famiglie in cui ci sono situazioni molto complicate, come problemi di tossicodipendenza, alcolismo, presenza di disabili in famiglia, che ovviamente riducono anche la possibilità di muoversi per motivi di lavoro. Con il Reddito di cittadinanza si era enfatizzata in maniera esagerata e diciamo la parte delle politiche passive, non vorrei che si facesse così anche adesso. Tutti si augurano che ci sia un potenziamento del personale o una miglior disegno delle politiche attive per il lavoro, però il rischio è che anche in questo caso i risultati siano scarsi.

Da cosa dipende?

Dal fatto che purtroppo siamo un paese in cui la domanda di lavoro da parte delle imprese è scarsa, soprattutto al sud, dove invece c’è la maggior parte delle persone che prendono questo sussidio. E poi diciamo la storia di istruzione lavorativa di persone è molto complicata. Pensi che, per quanto riguarda i beneficiari del reddito di cittadinanza, il 70% di loro aveva al massimo la licenza media. Può immaginare che tipo di lavoro possa essere offerto a una persona che ha quel titolo di studio. Però mi sembra che si sia sottovalutato un aspetto importante.

Quale?

Di per sé il lavoro non assicura la fuoriuscita dalla povertà. Il fenomeno dei working poor, dei poveri che lavorano credo che sia pari a circa 10, 15% dei lavoratori in Italia. Ed è un fenomeno europeo, non sono italiano che ci fa capire come anche percepire un reddito da lavoro di per sé non permetta, soprattutto a livello familiare, di superare la soglia di povertà. E allora, in questo senso, un sussidio rivolto ai poveri, ovviamente subordinato alla verifica della condizione economica, ha un senso, no? Perché lavorare non significa automaticamente uscire dalla povertà. Presentare, invece, questa riforma come una strada di uscita dalla povertà attraverso il lavoro potrebbe non essere realistico.

Potrebbe essere utile, invece, l’introduzione di un salario minimo?

Non ho un’opinione netta su questa proposta. Però le dico che mi risulta che la contrattazione collettiva nazionale in cui i contratti sono stati sottoscritti dalle principali variazioni sindacali sia una quota comunque bassa. A questo aggiungo che, secondo i dati dell’Istat, la quota di lavoratori che ha un salario lordo orario inferiore a 9 euro è di una certa consistenza, forse 20-25%. Probabilmente sarebbe opportuno pensare a un insieme di misure che vada da un reddito di inclusione al salario minimo a misure politiche attive.

Quali effetti avrà l’architettura delle nuove misure sul lavoro dei comuni e dei servizi sociali?

Il governo è corso ai ripari rispetto al decreto lavoro del 4 maggio, inserendo nella legge un’ulteriore modalità che permette di rimanere all’interno del vecchio canale, che prenderà la nuova denominazione di Assegno di inclusione, inserendo, oltre al fatto di vivere i nuclei in cui siano presenti minori o disabili, anche il fatto di essere coinvolti in attività create da servizi sociali. Questo, da un lato ho ridotto le tensioni sociali soprattutto nel sud, dall’altro però scaricherà sui comuni, sugli enti comunali, una responsabilità molto forte. Allora anche qui si tratta di capire quanto sia in grado una pubblica amministrazione a livello locale, di disegnare a tavolino progetti di reinserimento sociale. Al nord e al centro nord credo sia possibile perché c’è un’esperienza amministrativa consolidata, al sud il problema sarà molto più grande, ed è proprio al sud che il numero di beneficiari di Rdc è più alto.

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