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Tutte le pene di Conte

I Graffi di Damato sugli affanni del premier Conte tra la crisi dell’ex Ilva e un incontro al Quirinale

Reduce da un incontro al Quirinale che non deve essere stato facile, con un Sergio Mattarella alquanto inquieto anche per la gestione un po’ “schizofrenica” — a leggere la cronaca di Marzio Breda sul Corriere della Sera — della crisi dell’ex Ilva, ai cui gestori franco-indiani è stato prima dato e poi tolto il cosiddetto scudo penale per la bonifica dell’imponente impianto siderurgico di Taranto, Giuseppe Conte ha cercato di riprendersi con dichiarazioni e interviste che dessero di lui l’immagine di un uomo un po’ meno indeciso o più determinato delle apparenze.

LA VOCE GROSSA DI CONTE

In particolare, il presidente del Consiglio ha rifatto, come il giorno prima, la voce grossa contro i cinquemila esuberi programmati dagli indiani, chiamiamoli così, e l’azione giudiziaria intentata per recedere dal contratto a causa anche del mutato quadro “normativo” degli accordi. E non ha escluso, in un clima di auspicata solidarietà nazionale, un intervento diretto dello Stato per garantire produzione siderurgica e posti di lavoro. Ma, messo alle strette nel salotto televisivo di Bruno Vespa, a Porta a Porta, sull’aiuto che certamente non gli danno nel governo e nella maggioranza i grillini, dove i duri hanno preso il sopravvento e hanno determinato la cancellazione dello scudo penale usata dagli indiani per aprire la vertenza, Conte ha cercato di giustificarne contraddizioni ed errore parlando della “transizione” con la quale è alle prese il Movimento delle 5 Stelle.

LA CRISI DI LEADERSHIP DI LUIGI DI MAIO

È una “transizione”, quella dei grillini, non certamente nuova, anche se aggravata dal 7 per cento dei voti cui si sono ridotti nelle elezioni regionali umbre del 27 ottobre per essersi accordati col Pd anche locale, oltre che nazionale. Essa si trascina dal primo momento in cui, giù nella maggioranza gialloverde seguita alle elezioni politiche dell’anno scorso, i pentastellati dovettero fare i conti con i problemi di governo, un po’ diversi da quelli più semplici e redditizi dell’opposizione. Il guaio è che la crisi della leadership di Luigi Di Maio fra i grillini si è progressivamente aggravata dal dimezzamento dei voti subìto nelle elezioni europee di fine maggio e non vi è ora missione di Davide Casaleggio a Roma, come quella compiuta ieri, che riesca a risolverla.

I gruppi parlamentari delle 5 stelle sono in ebollizione: quello della Camera, appena travolto con il governo da una dura contestazione in aula da parte dei leghisti, è rimasto senza presidente e in quello del Senato gli intransigenti — o “i grillini d’acciaio”, come li ha chiamati su Repubblica Stefano Folli — dettano legge usando spesso e volentieri il soccorso tattico dei renziani. Sui cui umori e obiettivi potrebbero bastare e avanzare le parole appena dette da Matteo Renzi in persona a proposito di Conte in una intervista a Repubblica, ispirandosi al “suo” Lorenzo de’ Medici, detto Il Magnifico, nel Carnevale del 1490: “Del doman non c’è certezza”.

LE PENE DI ZINGARETTI

Se Conte ha motivo di piangere, il segretario del Pd Nicola Zingaretti, che peraltro comincia ad essere stanco pure lui del tipo di rapporto fra i grillini e il presidente del Consiglio, non può certo ridere dell’attivismo, tatticismo e altro ancora di Renzi. Che, sempre nell’intervista a Repubblica, gli ha praticamente rimproverato di essersi fatto prendere, o riprendere, anche lui dalle tentazioni elettorali ignorando che il ricorso anticipato alle urne, in caso di crisi, sarebbe “un suicidio collettivo”.

SCIOGLIMENTO DELLE CAMERE IN MANO A MATTARELLA

Il fatto è però che le chiavi dello scioglimento anzitempo delle Camere non è nelle mani di Renzi, come l’ex presidente del Consiglio ha forse creduto imponendo di fatto nella crisi di agosto la sua conversione improvvisa all’intesa con i grillini pur di evitarlo. Quelle chiavi sono solo nelle mani del presidente della Repubblica, che d’altronde glielo fece capire bene nel 2016, quando, pur essendo stato eletto l’anno prima al Quirinale col suo determinante appoggio, negò le elezioni anticipate chieste dallo stesso Renzi per investire, diciamo così, in un  rinnovo anticipato delle Camere il rilevante 40 per cento dei voti con cui aveva appena perduto il referendum sulla sua riforma costituzionale.

Ora che la maggioranza giallorossa è già in affanni progressivi, come il presidente del Consiglio in persona, e si può scherzare sul suo aggettivo scrivendo di “maggioranza giallorotta”, come ha fatto Libero in un titolo, il capo dello Stato  non intende giustamente far logorare dalla crisi politica anche il suo ruolo istituzionale. E, come ha appena ribadito allo stesso Conte secondo la già ricordata corrispondenza di Marzio Breda dopo l’incontro sull’affare indiano e dintorni, “il Colle non tenterà di costruire alternative né tecniche né istituzionali”, perché in caso di crisi “si andrà dritti al voto”. E vi si andrà probabilmente con un governo di garanzia, non con quello eventualmente dimissionario di Conte.

L’avvertimento dovrebbe valere anche per l’irrefrenabile fantasia ludica di Giuliano Ferrara. Che sul Foglio si è appena speso per la prosecuzione della legislatura, sia pure sulla “lastra di ghiaccio” immaginata da Marco Travaglio sulla prima pagina del Fatto Quotidiano. In particolare, il mio amico Giulianone ha scritto sin dal titolo del suo pezzo che “il governo senza spirito”, o senza anima, come altri hanno definito quello del Bisconte, “è molto meglio” delle elezioni anticipate. E ha incitato con eccitazione degna di miglior causa: “Insieme per trasformismo e necessità. È un bene se governicchiano”. D’altronde, potrebbe difendersi Ferrara, già la buonanima di Giulio Andreotti sosteneva al governo che “è meglio tirare a campare che tirare le cuoia”.

 

TUTTI I GRAFFI DI DAMATO

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