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Vi racconto lo schiaffo di Draghi ai partiti

Draghi Conferenza

Lo schiaffo, virtuale  ma ugualmente clamoroso, dato dal presidente del Consiglio uscente Mario Draghi ai partiti per difendere il tetto alle retribuzioni pubbliche

Che vergogna! Ma non lo “scontro sui soldi da Mosca” con cui anche il Corriere della Sera ha ritenuto di aprire oggi riferendo delle polemiche sulle anticipazioni dei servizi segreti americani circa finanziamenti russi in corso dal 2014 a partiti di una ventina di paesi. Fra i quali non è compresa l’Italia almeno “per ora”, come ha voluto precisare il presidente del Copasir  -Comitato bicamerale per la sicurezza della Repubblica- casualmente in visita proprio in questi giorni negli Stati Uniti: Adolfo Urso, del partito di Giorgia Meloni.

No. La vergogna, almeno per oggi, la vedo piuttosto nei giornaloni- chiamiamoli così- che hanno generalmente ignorato nelle loro prime pagine un evento più certo del cosiddetto “oro di Mosca”, come lo ha definito Il Quotidiano del Sud. E’ lo schiaffo, virtuale  ma ugualmente clamoroso, dato dal presidente del Consiglio uscente Mario Draghi ai partiti. Che tutti -proprio tutti, fra voti favorevoli e astensioni-avevano inserito al Senato come una supposta la costosissima deroga al tetto degli stipendi pubblici, per 25 milioni di euro in via immediata, nella conversione in legge di un decreto di aiuti alle famiglie e imprese danneggiate dalle bollette più care di luce e gas.

Draghi, che avrebbe potuto limitarsi a non rendere esecutiva questa deroga rinunciando al decreto attuativo previsto dalla norma, ha opposto alla Camera un emendamento soppressivo che obbligherà il Senato nella prossima settimana a riunirsi daccapo , nonostante già congedato di fatto dalla presidente Maria Elisabetta Casellati, per ratificare l’abolizione.

Non si sa bene quanti, fa generali e alti burocrati dello Stato, dovranno quindi rinunciare al sogno accarezzato per qualche ora di prendere  più dei 240 mila euro l’anno assegnati al Capo dello Stato. “Il tetto che scotta- Sull’aumento ai generali è duello tra i partiti e Draghi”, ha titolato in prima pagina, da solo e correttamente, il non giornalone Riformista, diretto da Piero Sansonetti.

Rovesciato è invece il quadro rappresentato  ai lettori dal Fatto Quotidiano. Che, sempre in prima pagina, ha parlato di “rapina dei Migliori”, intesi come “Draghi &C”, tentata al Senato e fatta rientrare alla Camera dal presidente della Repubblica Mattarella dopo avere definito “inopportuna” la deroga.

La storia di questa deroga è stata raccontata alla Stampa, che l’ha relegata però a pagina 15 senza alcun richiamo in prima, dal senatore berlusconiano Marco Perosino. Al quale in commissione Finanze, sempre al Senato, il presidente piddino Luciano D’Alfonso aveva chiesto a suo tempo “la cortesia amichevole” di firmare un emendamento che doveva interessare i quel momento non più di quattro o cinque persone dell’alta burocrazia. Nel proseguimento del cammino parlamentare l’emendamento risultò ritirato, salvo ricomparire all’ultimo momento a firma di “commissioni riunite” in un elenco di norme coperte da tanto di stanziamenti finanziari elaborati dal Ministero dell’Economia. E fu approvato all’unanimità, fra voti favorevoli e astensioni. La “manina”, o manona, che l’aveva fatta ricomparire in forma ancora più ampia non è stata, secondo Perosino, neppure del ministro Daniele Franco in persona, col  quale se l’è presa il pur amico ed estimatore presidente del Consiglio, ma di “funzionari statali”  interessati, o complici, e convinti che “non se ne accorgesse nessuno” nel bailamme della fine della legislatura.

Di questi “funzionari” è ravvisabile, secondo il senatore Perosino, la copertura politica di “tutto il Pd”, che “sapeva ed era d’accordo”, come dalla richiesta originaria di D’Alfonso all’amico forzista di firmare l’emendamento. “Loro ormai rappresentano la burocrazia italiana”, ha detto Perosino parlando dei parlamentari del partito di Enrico Letta e precisando di essersi inconsapevolmente, ma per fortuna, trovato nell’elenco dei risultati delle votazioni fra gli “astenuti”, e non tra i favorevoli del tutto.

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