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Zingaretti in confusione

Zingaretti

I Graffi di Damato. I danni procurati al Pd da Nicola Zingaretti …a sua insaputa

Pur mosso, per carità, dalle migliori intenzioni, addirittura da una spinta “d’amore”, come gli è capitato di dire, temo che il segretario dimissionario Nicola Zingaretti non stia facendo un buon servizio al suo partito continuando a rappresentarlo come un nido di vipere. O addirittura come un ammasso di rovine, una di quelle Chiese in mezzo alle cui rovine il Papa ha appena celebrato messa a Mosul. E non vorrei che proprio il Pontefice, di ritorno dall’Iraq che ha dichiarato di voler portare nel cuore accomiatandosene, pur affaticato alla sua età, non dimentichiamolo, si facesse tentare dallo sforzo generoso di una visita di soccorso e rimpianto al Nazareno. Dove invece esiste la sede di un partito intatto nelle sue mura, dove peraltro il segretario, gridando “vergogna”, ha ritenuto di doversi dimettere nonostante disponga – almeno sulla carta, in base alle informazioni di collaudati cronisti che ne seguono abitualmente le vicende – del 70 per cento e forse anche più dell’Assemblea Nazionale. Che si riunirà a fine settimana, salvo rinvii naturalmente.

Il Pd è stato riproposto in condizioni francamente molto più critiche di quanto non siano anche nella intervista, diciamo così, di commiato di Zingaretti da Barbara D’Urso. La quale era tanto emozionata dagli apprezzamenti dell’ospite a distanza per l’unico salotto televisivo dove grazie alla sua conduzione, si potrebbe stare e ragionare “senza la puzza al naso” dei soliti “radical chic”, da confondere Zingaretti per il presidente, e non il segretario dimissionario, avendo lui come unica presidenza quella della regione Lazio.

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Trovo, peraltro, alquanto esagerato lamentare che il pluralismo, il confronto e quant’altro siano stati “scambiati con la polemica”, come ha detto appunto Zingaretti a quanti lo hanno criticato nel partito, o con “un martellamento”, come lo stesso Zingaretti ha detto rispondendo ai giornalisti che, accorsi all’inaugurazione di un hub di vaccinazione alla Stazione Termini, da lui inaugurato nella veste già accennata di presidente della regione Lazio, hanno comprensibilmente cercato di farlo parlare delle dimissioni da segretario del Pd.

È vero, in questa occasione Zingaretti ha anche detto che il partito potrà “cavarsela”, come tutti noi dalla pandemia, secondo gli auspici, anzi la certezza espressa pure dal presidente della Repubblica nella stessa giornata accorrendo alla Nuvola di Massimiliano Fuksas felicemente trasformata in un centro di vaccinazione. Ma per cavarsela il Pd ha quanto meno bisogno che il suo segretario, per quanto uscente o dimissionario, come preferite, non ne parli peggio ancora dei più critici osservatori delle vicende politiche.

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Penso, per esempio, al partito “labirinto” di cui ha scritto nel suo editoriale su Repubblica l’ex direttore Ezio Mauro. O al Pd “sfinito per volontà di governo” trattato nel suo editoriale sulla Stampa da Massimo Cacciari, che ha evidentemente preso alla lettera il “poltronismo” lamentato proprio da Zingaretti. O alla “missione impossibile” di una “rifondazione” del Pd, di cui ha scritto nel suo editoriale sul Mattino Mauro Calise. O addirittura al parricidio come misura liberatoria, alla sessantottina, cui ha accennato un’autorità della psicanalisi come Massimo Recalcati scrivendo anche del Pd dopo la formazione del governo di Mario Draghi.

Mi chiedo tuttavia quale sia il padre vero di cui liberarsi in quel partito, fra i tanti segretari avvicendatisi nei suoi primi e soli tredici anni di vita: Walter Veltroni, Dario Franceschini per qualche mese, Pier Luigi Bersani, Guglielmo Epifani, anche lui per qualche mese, Matteo Renzi, Maurizio Martina, di nuovo per poco tempo, e infine Zingaretti. O bisogna andare ancora più indietro anagraficamente e arrivare ai sopravvissuti alla guida delle formazioni dalla cui confluenza nacque il Pd nel 2007? Bel problema. Sarebbe un’ecatombe. Dovrebbero temere il parricidio anche Massimo D’Alema, Piero Fassino, di cui pure è comparso il nome come un possibile reggente del Pd in questi giorni su parecchi giornali, e Achille Occhetto. Si salverebbe, per fortuna, solo Giorgio Napolitano per la fortuna di essere arrivato al Quirinale, peraltro rimanendovi per ben 9 anni, con un supplemento di mandato presidenziale unico nella storia della Presidenza della Repubblica, senza essere prima passato per la guida di nessuno dei partiti d’origine del Pd.

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Insomma, Nicola Zingaretti farebbe forse bene a fermarsi, non dico a tornare indietro, e a riflettere sulle impietose analisi o diagnosi che emette direttamente sul Pd o finisce per suggerire ad altri. Senza rendersene conto, spero, egli sta un po’ facendo col pur “suo” Pd ciò che il mio amico Luca Giurato ha preso l’abitudine di fare nei salotti televisivi con le sue esagerate manifestazioni di affetto e cordialità, travolgendo padrone di casa e ospiti sino a mandarli in infermeria o in ospedale. Proprio l’altro ieri mi sono gustato su Canale 5, dove mi ero affacciato con troppo anticipo pensando di trovarvi Zingaretti, la replica di una intervista a Luca Giurato fatta da una Barbara D’Urso terrorizzata vedendoselo seduto con la solita, festosa esuberanza su un bracciuolo della sua poltrona.

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