Organizzazione no-profit? Ente umanitario? Fondazione super-partes? Che cos’è la Gaza Humanitarian Foundation (GHF), l’attore unico che dovrebbe distribuire gli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza nel quadro del nuovo piano di occupazione dell’enclave palestinese dell’Idf? Chi la guida, chi la finanzia, chi opera sul campo? Ma, sopratutto, è davvero un attore neutrale?
Pronti, via: ancor prima di annunciare l’attivazione del primo punto di distribuzione, lasciano la GHF il direttore esecutivo Jake Wood – “Non è possibile applicare questo piano mantenendo i principi fondamentali di umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza, che non sono disposto ad abbandonare” ha dichiarato annunciando il proprio passo indietro – e il capo delle operazioni David Burke: due veterani dell’esercito americano, già insieme alla guida del Team Rubicon, un’ organizzazione che mobilita ex Marines in contesti di disastri naturali, ma con nessuna esperienza pregressa in contesti di guerra.
Né ci possono rassicurare i curriculum delle altre figure rimaste nel perimetro del progetto: contractors, affaristi, addestratori, tutti, chi più chi meno, legati al mondo della guerra, e non certo nel ruolo di angeli della salvezza. Eppure sono loro a gestire gli aiuti nella Striscia.
IL PIANO ISRAELIANO DI DISTRIBUZIONE DEGLI AIUTI
Prima del 7 ottobre a Gaza entravano circa 600 camion al giorno, con l’Onu che si occupava di distribuire gli aiuti attraverso una rete capillare di centri nella Striscia. Il nuovo piano prevede invece, a regime, la presenza di quattro punti militarizzati attivi 24 ore su 24 in prossimità dei corridoi di Netzarim e Morag, nel sud della Striscia.
A questo scopo è stata creata a febbraio la Gaza Humanitarian Foundation, registrata a febbraio con sede in Svizzera. Attualmente l’organizzazione è riconosciuta soltanto da Usa e Israele. Dovrebbe gestire il piano di distribuzione di aiuti approntato per Gaza dal governo Netanyahu, con l’obiettivo di togliere ad Hamas la possibilità di impadronirsi degli aiuti umanitari.
Secondo quanto riporta il Financial Times, dovrebbe distribuire 330 milioni di pasti in 90 giorni, con un costo per pasto di 1,30 dollari, attraverso l’individuazione di un rappresentante (“capofamiglia”) per nucleo, autorizzato a ritirare le razioni previo riconoscimento facciale, sulla scorta dei metodi già impiegati in Cisgiordania.
Le razioni corrisponderanno a un non meglio precisato fabbisogno calorico, calcolato da Israele. Per tutelare i centri di distribuzione impiegherà contractors americani, mentre l’Idf veglierà sullo spazio aereo e sulla logistica, anche attraverso l’intelligence.
TUTTI GLI UOMINI DELLA GHF
Il presidente per il momento rimane David Papazian, finanziere armeno ex ad dell’Anif, il fondo nazionale armeno, poi sollevato su indicazione del ministro dell’Economia di Yerevan, e anche presidente della compagnia aerea di bandiera Fly Arna, che non naviga certo in buone acque.
Nel board figurano anche Loik Samuel Marcel Henderson, residente in Virginia – non ha precedenti professionali pubblici né esperienza in ambito umanitario o di sicurezza; Raysa Sheynberg, ex dipendente federale del governo americano, esperta in sicurezza; Jonathan Foster, imprenditore e fondatore del private equity Current Capital Partners LLC, il luogotenente Mark C. Schwartz, trent’anni nelle fila dell’esercito americano; Bill Miller, altro ex Marine, lo svizzero David Kohler, avvocato legato una società di gestione patrimoniale per clienti facoltosi, anche lui dimessosi nei giorni precedenti. Stessa sorte per John Acree, capo delle missioni GHF, ex dirigente USAID specializzato in cooperazione civico-militare, con esperienza in Iraq e Afghanistan. Tra
Smentito il coinvolgimento invece di due figure che avrebbero potuto dare credibilità al progetto e che invece ci tengono a sottolineare la distanza: David Beasley, ex direttore del Programma Alimentare Mondiale, e Nate Mook, ex direttore di World Central Kitchen, sebbene entrambi figurino in documento sulla fondazione diffuso online.
CHI FINANZIA GHF
Non sono noti invece i finanziatori, sebbene una fonte anonima abbia riferito a Reuters che la fondazione ha già beneficiato di 100 milioni di dollari in donazioni. Da parte di chi, non è dato saperlo.
Il sospetto, che si fa sempre più concreto di dimissione in dimissione, è che la struttura sia una pura e semplice copertura per un apparato creato ad hoc da Israele e Usa e finanziato dai rispettivi governi.
IL RUOLO DEL MIKVEH YISRAEL FORUM
Secondo alcuni, ai prodromi della Ghf ci sarebbe il Mikveh Yisrael Forum, la piattaforma che dal 2023 studia un modo per aggirare l’Onu e far sì che Israele sia l’unico attore a dare le carte nella Striscia.
Tra coloro che avrebbero preso l’iniziativa figurano, secondo il New York Times, tre figure con profili molto diversi ma influenti: Yotam HaCohen, già assistente del Generale di Brigata Roman Goffman (oggi consigliere del primo ministro israeliano e in passato a capo del Cogat, l’organismo della Difesa israeliana incaricato di supervisionare le politiche civili in Cisgiordania); Liran Tancman, imprenditore tech e riservista dell’unità di élite 8200 dell’intelligence militare, che avrebbe suggerito l’uso di tecnologie biometriche per il controllo dei civili palestinesi nei pressi dei centri di distribuzione; e Michael Eisenberg, venture capitalist israelo-statunitense, noto per i suoi investimenti ad alto rischio.
Nel corso del 2024, un gruppo ristretto di consulenti americani del settore privato -capeggiato da Phil Reilly, ex ufficiale CIA – sarebbe stato coinvolto da funzionari israeliani nella definizione di un nuovo piano operativo. Reilly, noto per aver addestrato negli anni ’80 le milizie contras in Nicaragua e per essere stato tra i primi agenti statunitensi sbarcati in Afghanistan dopo l’11 settembre (dove diresse la stazione CIA di Kabul prima di passare al settore privato con la società Orbis in Virginia), ha poi assunto un ruolo centrale nel progetto.
I CONTRACTORS
Con Ghf collaborano le americane Safe Reach Solutions e UG Solutions – già attive nella regione durante il cessate il fuoco di gennaio-marzo – che gestiscono i cosiddetti “contractors”.
Proprio Reilly, insieme ad altri cinque esperti tra Israele e Stati Uniti, sarebbe l’ideatore della Safe Reach Solutions, società formalmente registrata nel Wyoming a novembre 2024, subito dopo le elezioni presidenziali USA. Già attiva sul campo, a gennaio 2025 ha assunto il controllo di checkpoint nella Striscia di Gaza durante la tregua temporanea, operando in aree evacuate dall’esercito israeliano e ispezionando i veicoli diretti verso nord.
Mentre il fondatore di UG Solutions è un soldato in pensione, Jameson Govoni, in passato addestratore per operazioni speciali in giro per il mondo, anche in contesti di contrasto al terrorismo.
LA MILITARIZZAZIONE DEGLI AIUTI
Proprio la militarizzazione dei centri e la logica del “centro” – con la popolazione costretta a spostarsi verso il cibo, piuttosto che il contrario – sono alcuni elementi su cui fanno si concentrano le critiche, con le Nazioni Unite in prima fila a bocciare il progetto.
Peraltro come ricorda la stessa UNRWA non ci sono prove di un sistematico dirottamento da parte di Hamas degli aiuti, né si ha reale riscontro sulle accuse di connivenza con Hamas ai tradizionali operatori umanitari attivi nella Striscia da decenni di connivenza lanciate dal governo isreaeliano.
Anzi, secondo il commissario generale Philippe Lazzarini il piano israeliano cerca deliberatamente di incentivare lo spostamento forzoso della popolazione, sottoponendola a viaggi di chilometri con un scorte che possono pesare fino ai 20-25 chili, attraverso zone in mano all’Idf.
Chi ha preparato l’organizzazione, ha ben studiato i possibili scenari e le critiche che certamente sarebbero piovute sull’organizzazione, tanto che, riporta la Repubblica, esisterebbe un memo di 198 pagine in cui sono state predisposte una serie di indicazioni e risposte utili per rispondere e arginare le accuse. Per esempio, campagne social per coinvolgere influencer arabi, o l’impegno a non far sembrare in alcun modo l’organizzazione servile nei confronti dello Stato ebraico.
Hamas intanto invita a boicottare il piano di aiuti, minacciando ritorsioni nei confronti di chi collaborerà, definendo il piano di aiuti “pericoloso, finalizzato a servire obiettivi di sicurezza israeliani e a indebolire le organizzazioni internazionali”