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“Autonomia differenziata: il Sud può ridurre il divario con il Nord”. Parla Giovanni Toti

Toti Autonomia Differenziata

Faccia a faccia con il governatore della Regione Liguria Giovanni Toti, sui temi dell’autonomia differenziata 

La riforma dell’autonomia differenziata è uno dei temi caldi a cui l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni si dedicherà. La bozza di riforma elaborata dal Ministro Calderoli ha generato preoccupazione tra alcuni amministratori, soprattuto meridionali. All’interno dello stesso governo le posizioni in merito all’urgenza dell’approvazione della riforma differiscono, con la Lega che vorrebbe premere il piede sull’acceleratore e Forza Italia e Fratelli d’Italia che chiedono prudenza. “Il tempo verrà richiesto dalla Camera dei deputati e dal Senato della Repubblica”, ha detto il ministro Calderoli. “Ragionevolmente una legge ordinaria di quelle dimensioni richiede un anno di esame del Parlamento”.

Della riforma dell’autonomia differenziata ne abbiamo parlato con Giovanni Toti, presidente della Regione Liguria e leader di Italia al Centro.

Perché abbiamo bisogno della riforma dell’autonomia differenziata? Quali sono i vantaggi?

I vantaggi sono evidenti perché un’amministrazione più vicina ai cittadini non può che avere ricadute positive sul territorio. Dobbiamo ridisegnare l’impianto di questo Paese e l’autonomia differenziata va nella direzione in cui chiunque amministri un territorio ha sempre sperato si andasse, ovvero una devoluzione di competenze e anche una specificazione di quelle competenze che oggi sono nel titolo V delegate alle regioni ma su cui i poteri dello Stato impediscono una piena autonomia. Tutto ciò comporta una riflessione da parte nostra ma anche una rivendicazione nei confronti di questo dibattito che veda realmente una devoluzione dall’alto verso il basso dei poteri dello Stato. Se le regioni avranno maggiori poteri, i comuni dovranno avere maggiori poteri così come le città metropolitane. Bisogna riportare quell’equilibrio che hanno perduto dopo la legge Delrio e tornare a essere dei punti di riferimento significativi ed efficienti per la comunità dei sindaci.

Se anche questa legislatura non riuscirà a portare avanti un riordino dei poteri, credo che avremmo perso una opportunità importante. Questo Paese ha bisogno di una classe dirigente che non abbia timore di prendersi delle responsabilità e che prenda delle decisioni: decidiamo di quali materie si devono occupare le Regioni, di quali il Governo, le Città Metropolitane e soprattutto superiamo tutti quei parametri, creati dalla politica sia chiaro, che bloccano per certi punti vista la pubblica amministrazione.

La riforma dell’autonomia differenziata si pone nella scia della riforma costituzionale del Titolo V del 2001. Secondo lei su quali aspetti della riforma del 2001 la nuova riforma dovrebbe intervenire?

La riforma dovrebbe intervenire sostanzialmente su due aspetti: il primo riguarda le competenze concorrenti tra Stato e Regioni che hanno creato un gigantesco contenzioso costituzionale. L’Autonomia differenziata farà in modo, invece, che le competenze diventino più nette, alcune è giusto che restino al Governo centrale in forma esclusiva, altre è corretto invece che passino alle Regioni. Il secondo tema che va affrontato è poi quello dell’autonomia finanziaria, partendo dai decreti sul federalismo fiscale voluti proprio dal ministro Calderoli dopo la riforma del 2001: occorre sedersi intorno a un tavolo e comprendere esattamente con quale capacità fiscale le Regioni pagheranno la loro autonomia perché è un punto centrale del recupero di efficienza che la riforma deve portare.

Secondo lei quali sono gli aspetti sui quali si dovrebbe lavorare affinché questa riforma non attivi un processo disgregativo?

Non credo che questo possa avvenire. Dietro alla resistenza di una certa politica, contraria al progetto di una maggiore autonomia per Regioni, e, di conseguenza anche Province e Comuni, vedo soprattutto la paura. Non paura di perdere risorse per i propri territori, cosa che con la riforma non potrebbe accadere, ma la paura di essere giudicati dai cittadini senza più pretesti, scuse, confusione di responsabilità: tutti fattori che spesso giustificano la mancanza di visione o di coraggio. Con una maggiore autonomia ognuno sarà costretto ad assumersi la responsabilità delle scelte, delle leggi che si approvano, del modello di sviluppo sociale ed economico che si dà a un territorio. E, di conseguenza, risponderne agli elettori. Gli elettori, di fronte a mancati risultati, saranno chiamati a mandare a casa i politici inetti che hanno mancato l’obiettivo, oppure a condividerne le scelte senza il diritto di lamentarsi. Questo vuol dire che esiste il diritto, ma esiste anche il dovere: dovere di scegliere, dovere di assumersi responsabilità, dovere di giudicare e essere giudicati. Tanto è vero che l’esigenza di maggiore autonomia per gli enti locali viene avanzata da molte delle amministrazioni più efficienti del paese. E la maggiore resistenza arriva da territori che francamente negli ultimi decenni non hanno spesso espresso il meglio in termini di amministrazioni.

Il governatore De Luca ha assicurato una battaglia durissima, numerosi amministratori del sud hanno scritto al Presidente Mattarella. C’è il rischio che la riforma sfavorisca il sud?

Io credo che l’autonomia dovrebbero chiederla ancora di più le Regioni del Sud rispetto a quelle del Nord. Se questo Paese è diviso sostanzialmente in due o in tre, con velocità diverse da ormai più di un settantennio di storia unitaria del Paese, qualcosa è stato sbagliato. Se vogliamo rendere il Sud più competitivo dobbiamo dare alle Regioni e ai grandi centri urbani del Sud, l’autonomia di poter competere con il Nord in modo più aggressivo, in modo da poter privilegiare le loro peculiarità, legate ovviamente al turismo all’artigianato, all’industria, all’agroalimentare. Per farlo occorre che abbiano delle regole anche più competitive di quelle del Nord. Quindi credo che il grande movimento per l’autonomia, per la verità dovrebbe partire dal Sud e non dal Nord perché se oggi esiste una Italia a più velocità non è certo per l’autonomia, che non c’è, ma per colpa di pessime classi dirigenti e di un centralismo romano che tutto ha protetto e giustificato sotto l’ombrello della mediocrità.

È rischioso che i Lep siano definiti attraverso una cabina di regia con un Dpcm?

Non lo reputo rischioso e non vedo in quale modo possano essere definiti i Lep se non attraverso un confronto tra i vari ministeri trattandosi di materie molto diverse.

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