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I muri di Kabul

Kabul

I Graffi di Damato. La vergogna, certo, dei talebani ma anche di chi alza muri contro chi fugge da loro

Sembra un paradosso ma non lo è. Sono condivisibili gli editoriali pur di segno contrario che sono oggi dedicati su due importanti giornali italiani alle notizie, immagini e quant’altro provenienti dell’Afghanistan, prevalenti sulle miserevoli cronache e cronachette della politica interna italiana. Ha ragione, in particolare, Massimo Giannini quando scrive sulla Stampa che “le promesse da talebano”, come quelle da marinaio, “sono durate mezza giornata”. E continua: “La faccia buona del mullah era un bluff ad uso delle famose e fumose Cancellerie, la conferenza stampa con gli smartphone era cortina fumogena per i pochi giornalisti rimasti. Bin Laden è morto. Saddam Hussein è morto, ma Haibatullah Akhindzada e il Mullah Baradar sono più vivi che mai. E in fondo, vent’anni dopo, non sono poi tanto cambiati. I rastrellamenti casa per casa dei collaborazionisti, la caccia alle ragazzine non ancora sposate, persino le esecuzioni sommarie dei “traditori”. In Afghanistan è tornata l’Apocalisse”.

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Eppure ha ragione anche Angelo Panebianco a scrivere sul Corriere della Sera che “la conclusione della vicenda afghana non è soltanto la più disastrosa sconfitta subita in tempi recenti dalla società occidentale a opera di un movimento totalitario. Segna pure, paradossalmente, il momento di un suo amarissimo successo. I disperati che si aggrappano agli aerei in volo, le donne terrorizzate dal ritorno dei barbari e tutti coloro che cercano ora di scappare prima che l’inferno li inghiotta, testimoniano che, nonostante vent’anni di guerra e tanti errori, gli occidentali erano riusciti ad aiutare gli afghani a creare, quanto meno, un embrione di società decente. Una società in cui le bambine potevano andare a scuola e le ragazze all’università, in cui gli uomini e le donne potevano impegnarsi in attività economiche che non consistessero nella coltivazione dell’oppio”.

È lo stesso discorso, praticamente, fatto a caldo davanti alle telecamere del Tg1 dal presidente del Consiglio Mario Draghi parlando della “traccia profonda” comunque lasciata nella “società afghana” dagli occidentali in vent’anni non solo di occupazione militare, ma anche di costruzione di strade, ospedali, scuole e assistenza sociale e civile alle popolazioni: altro che “il massacro” addebitato anche ai “nostri ragazzi” sul manifesto dalla vecchia Luciana Castellina, purtroppo nel silenzio di tutto il resto di un giornale dove certo non mancano collaboratori, giovani e anziani, dotati di una visione meno preconcetta di ciò che vogliono e sanno fare “i nostri ragazzi”, appunto, impegnati nelle missioni all’estero. Lo sa, per esempio, l’inviata del quotidiano orgogliosamente e dichiaratamente “comunista” Giuliana Sgrena, che fu sequestrata nell’Iraq, anch’esso occupato militarmente, e liberata grazie anche ai suoi connazionali che vi lavoravano armati.

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Ciò di cui, piuttosto, l’Occidente e contorni dovrebbero vergognarsi è il muro materiale e politico levato contro l’accoglienza dei profughi provenienti dall’Afghanistan, nei quali è prevalsa, a torto o a ragione, la paura del futuro sulla speranza e sulla volontà di far crescere ciò che è stato seminato nel loro Paese. Parlo naturalmente del muro improvvisato dai greci lungo i confini con la Turchia e di quello verbale innalzato in Italia dal solito “capitano” leghista Matteo Salvini. Cui si spera che l’alleato Silvio Berlusconi, ricevendolo nel rifugio sardo di Porto Rotondo, abbia spiegato che non si fa e non si parla così in un Paese di tradizioni migratorie, peraltro, come l’Italia, da cui si scappava per fame.

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