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L’eterno dilemma tra finanziamento pubblico ai partiti e regolamentazione del Lobbying
L’inchiesta di Genova, che ha portato agli arresti domiciliari il il governatore Giovanni Toti, ha acceso i fari su altri due temi verso cui la politica ha sempre alternato sensibilità e diffidenza: il finanziamento pubblico ai partiti e la regolamentazione del lobbying.
“La vicenda ligure pone un problema più ampio: un politico eletto grazie ai voti di una comunità, di un territorio, di un settore economico, se poi soddisfa quegli interessi sta facendo politica o commette un illecito?”. A porsi questa domanda, intervistato sul Riformista, è il professor Pier Luigi Petrillo, docente alla Luiss di diritto comparato e teorie tecniche delle lobbies. Ovviamente, continua il prof. Petrillo, “si deve rendere tutto trasparente” e “mi pare che Toti abbia reso note quelle contribuzioni. In Gran Bretagna la legge dice esattamente il contrario: se un candidato ha preso soldi da un’azienda, non potrà mai e poi mai intervenire sugli interessi di quella azienda. Da noi direi che vige il discorso opposto: chi finanzia un candidato lo fa perché questo condivide il suo stesso interesse e se ne farà carico”.
“I POLITICI DA CHI POSSONO ACCETTARE FINANZIAMENTI?”
Oggetto dell’intervista – come si è capito – è l’inchiesta che si è abbattuta sulla Regione Liguria e sul presidente Giovanni Toti, insieme ad altre personalità politiche e imprenditoriali. Inchiesta che, come accade ormai di consueto in casi analoghi, ha acceso i fari su altri due temi verso cui la politica ha sempre alternato sensibilità e diffidenza: ovvero il finanziamento pubblico ai partiti e la regolamentazione del lobbying.
“Gli attori politici dovrebbero chiedersi, ogniqualvolta ricevono donazioni: da chi possiamo accettare finanziamenti? Chi può sostenere questo tipo di attività?” sottolinea su Avvenire Federico Anghelé, direttore di The Godd Lobby Italia, organizzazione non profit fondata nel 2015. “Una distanza tra soggetti diversi deve esserci – aggiunge – così come è necessario un apparato di autoregolamentazione”.
Diversi rappresentanti politici, anche ieri uno dei big di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli, nelle ultime settimane hanno paventato un ritorno ai contributi pubblici diretti ai partiti, aboliti nel 2013 dal governo Letta. Netta contrarietà, invece, da parte di Matteo Renzi. Ne avevamo parlato anche su PolicyMakerMag, subito dopo gli scandali su presunti voti di scambio in Puglia e Piemonte, intervistando l’on. Gaetano Quagliariello, presidente della Fondazione Magna Carta ed ex ministro delle Riforme del governo Letta, il quale sosteneva che l’assenza del finanziamento pubblico ai partiti non c’entrava nulla. Quello che emerge però, alla fine, è una condivisione sulla necessità di regolare e disciplinare le attività delle lobbies.
COME SI FINANZIANO OGGI I PARTITI
Oggi ai partiti rimangono tre opzioni di sopravvivenza: le erogazioni liberali; il 2×1000 dei cittadini (sono solo 1,7 milioni – scrive Avvenire – gli italiani che hanno deciso di avvalersi di questa possibilità, su un totale di 42 milioni di contribuenti); il sostegno di soggetti terzi, quali ‘think tank’, fondazioni politiche e associazioni. Soggetti spesso legati a doppio filo alle forze politiche. OpenPolis ne ha contate 121, a dimostrazione di come lo strumento sia abbastanza utilizzato.
IL CASO DELE FONDAZIONI
“Il problema delle fondazioni – scrivono Barbera e Riformato su La Stampa – emerge nel giro di pochi anni: la scarsa trasparenza. Inizialmente le organizzazioni sono tenute a pubblicare solo lo statuto e il bilancio. I partiti hanno obblighi assai più stringenti: ogni contributo sopra i 500 euro all’anno va registrato; sopra i tremila serve una dichiarazione congiunta del donatore e del destinatario; il tetto massimo è di centomila euro.
La differenza fra partiti e fondazioni è al centro della lunga vicenda giudiziaria che coinvolge Open, la cassaforte dell’attività politica di Matteo Renzi dal 2012 a12018. L’intero caso (oggi discusso di fronte alla Corte di Cassazione) ruota intorno a due domande: una fondazione può essere considerata «articolazione di un partito politico»? Dovrebbe dunque rispondere delle stesse regole? Nel 2019, prima il disegno di legge “Spazzacorrotti” voluto dal Movimento Cinque Stelle e un successivo decreto tentano di introdurre norme più severe per gli organismi nell’orbita delle forze politiche”.
Raffaele Cantone, ex presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione e oggi procuratore di Perugia, a La Stampa descrive l’esito così: «La modifica fu un passo avanti, ma non risolutivo, il problema rimane». Le fondazioni vengono equiparate ai partiti quando gli organi direttivi e di gestione «sono composti per almeno un terzo» da politici o ex politici. In estrema sintesi, per non dover sottostare ai monitoraggi obbligatori per i partiti, basta far sparire dai consigli di amministrazione delle organizzazioni chiunque abbia mai ricoperto incarichi. E così è accaduto negli anni successivi”.
URGENTE UNA SERIA REGOLAMENTAZIONE DEL LOBBYING
La domanda sorge spontanea, ed è una delle più inflazionate negli ultimi anni: perché non si fa una legge sulle attività di lobbying? Spiega il prof. Petrillo sul Riformista: “Siamo l’unico paese europeo, con la Spagna, a non avere una legge” sulle attività di lobbying. “La Grecia la approvata poco tempo fa. Da noi è il far west. Perché? Per due motivi: innanzitutto perché il decisore politico preferisce avere questo paravento, per cui nell’assenza di regola qualunque problema può essere fatto ricadere sulle lobby. E, seconda ragione, anche ad alcuni lobbisti conviene questa assenza di chiarezza: se non ci sono regole e l’accesso alle lobbies è oscuro allora prevale il criterio dell’amicizia. E’ la logica opaca dei favori a prevalere. Tutto molto italiano”.
Sottolinea il presidente dell’Anac Giuseppe Busia, su La Stampa: “È quantomai urgente una seria regolamentazione delle lobby, come ci chiedono da tempo molti organismi internazionali, fondata sulla piena trasparenza e con limiti e divieti chiari per evitare ogni rischio di opacità. I portatori di interessi, piccoli o grandi che siano, non vanno criminalizzati, ma regolati in modo efficace. Occorrono canali visibili a chiunque attraverso i quali far veicolare le loro proposte, mettendo sullo stesso piano lobby più o meno potenti”.
LE DIFFIDENZE VERSO IL LOBBYING? “UNA FUNZIONE AZIENDALE COME TUTTE LE ALTRE”
Alla base c’è anche il fatto che le lobbying trovano ancora molte resistenze e diffidenze. Ne avevamo parlato su PolicyMakerMag con il prof. Luca Brusati, docente di Economia aziendale e senior fellow presso la SDA Bocconi. Permettere ai professionisti di confrontarsi e mettere a sistema le esperienze migliori è un tassello importante del percorso di legittimazione del lobbying. “Che il settore stia professionalizzandosi mi pare innegabile – sostiene il prof. Brusati -. Il fenomeno è misurabile con il costante aumento dei fatturati e degli organici delle agenzie più importanti”. Questa dinamica suggerisce che un numero crescente di clienti si avvalga di specialisti qualificati anziché affidarsi a figure dal profilo professionale incerto (i vecchi “faccendieri”)”.
Scrive infine Filippo Facci sul Giornale: “A nessuno è ancora venuto in mente che l’unica legge da fare (anziché rifare) possa riguardare una più chiara normativa per spiegare che «lobbying» non è una parolaccia, che in molte nazioni esistono normalmente dei gruppi di pressione che cercano legalmente di influenzare strategie e decisioni politiche (finanziando i partiti e i candidati) e che la differenza tra questo e una corruzione, o un traffico di influenze illecite, altrove è chiaro a tutti: magistrati compresi. I finanziamenti privati: sono questi che andrebbero metabolizzati, non quelli pubblici che andrebbero ripristinati, offrendo così il fianco alle demagogie antipolitiche del peggior grillismo o del qualunquismo da social, o alle peggiori frustrazioni e invidie sociali per via di quei politici che vivono eternamente coi «soldi nostri»”.