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L’ossessione del golpe in casa del Fatto

Dpcm Draghi

I Graffi di Damato. Anche Mario Draghi finisce sulla giostra continua dei golpisti

Se il golpismo, come si legge sui dizionari della lingua italiana, è “la tendenza a risolvere con un colpo di Stato contraddizioni e controversie politiche”, la golpemania – termine ignorato dai dizionari – può essere intesa come la tendenza, anch’essa, a immaginare e denunciare un golpe, appunto, dietro a qualsiasi evento politico sgradito o soltanto non condiviso. È una giostra sempre in azione nella politica italiana, dove scende e sale anche in corsa, come in un circo, la gente più disparata.

Non appena se n’è delineata la sagoma nella lunga crisi appena chiusa con la formazione del governo di Mario Draghi, e aperta solo formalmente il mese scorso, essendo di fatto strisciante già dall’autunno del 2020, sono cominciati i mormorii sui soliti “poteri forti” smaniosi di impadronirsi dei fondi comunitari della ripresa. Che sarebbero stati destinati all’Italia non da una Unione Europea finalmente tornata, sotto la spinta della tragedia pandemica, all’originario spirito solidaristico dei suoi fondatori, ma dall’abilità negoziatrice e altre virtù ancora di Conte. Cui anche per questo, e non solo per i premi e gli aumenti ricevuti, il personale avrebbe rivolto applausi di ammirazione e di ringraziamento all’uscita da Palazzo Chigi.

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È dall’emissione di quel metaforico assegno di 209 miliardi di euro firmato o garantito dalla cancelliera tedesca Angela Merkel che “il catto boyscout Matteo Renzi – ha scritto Massimo Fini sul Fatto Quotidiano, e dove sennò? – comincia a tirare la corda e fare il suo sordido lavorio per abbattere Conte”, facendo “gola quei miliardi a molti banchieri, finanzieri, persone irreprensibili perché vestono in giacca e cravatta, pranzano all’ora di pranzo e cenano all’ora di cena”. E vanno spesso a messa da buoni cattolici, come fa pure il direttore del Fatto Marco Travaglio, al quale l’irriverente collaboratore ha rimproverato di non avere mai avuto dubbi sulla sua “fede”, di non avere mai riflettuto “sulla potenza” assunta “negli ultimi decenni in Italia” da un “cattolicesimo che non ha nulla a che vedere col cristianesimo, cioè coll’affascinante borderline di Nazareth”. “Adesso – ha concluso Fini – abbiamo uno Stato prigioniero dell’ipocrisia cattolica, dei catto-boy scout, dei catto-banchieri, l’unica vera e sola Santissima trinità”. Gli sono subito andati dietro sullo stesso Fatto il buon Fabrizio d’Esposito dando a Draghi del “chierico vagante” e il giornale debenedettiano Domani del “gesuita” e del “tecnico ignaziano”, da Ignazio di Loyola, naturalmente.

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Eppure, all’inizio del suo articolo, volendosi richiamare alla famosa convinzione di Giulio Andreotti che “a pensare male si fa peccato, ma ci si azzecca quasi sempre”, Fini aveva scritto del compianto esponente del cattolicesimo italiano come dell’uomo “che per competenza, conoscenza dell’Italia, sia in senso storico che amministrativo, intelligenza, arguzia e stile sta cinque spanne sopra i nani di oggi e in qualsiasi altro Paese sarebbe stato un grande uomo di Stato, ma in Italia ha dovuto essere una sorta di ircocervo, metà uomo di Stato e metà, forse, delinquente”.

Ma, oltre che con la buonanima di Andreotti, il povero Fini si è inconsapevolmente ritrovato nel suo ragionamento, o nella sua golpemania, come dicevo all’inizio, col super-odiato Silvio Berlusconi, convinto di essere stato defenestrato da Palazzo Chigi nel 2011, pure lui come Conte in questo 2021, con un colpo di Stato.

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