Alla vigilia del vertice dei ministri della Salute del G7, le Regioni hanno scritto una…
Trump e Giuseppi
I Graffi di Damato. Il mondo col fiato sospeso e lui, Trump, con quel pugno infilato nel guantone nero
Vi giuro che non c’entrano nulla quei “Giuseppi” lanciati come due palle a Conte l’anno scorso, una per la maggioranza con la quale aveva governato sino al giorno prima e l’altra per la nuova su cui stava trattando più o meno dietro le quinte per restare a Palazzo Chigi sino alla fine ordinaria, addirittura, della legislatura cominciata nel 2018. Eppure il maggiore partito uscito dalle urne aveva già perduto per strada metà dei voti nelle occasioni avute dagli italiani per tornare in cabina. Nell’antipatia che sto per esprimere, o ribadire, nei riguardi del presidente uscente degli Stati Uniti Donald Trump c’è dell’altro.
La diffidenza verso Conte per la disinvoltura con la quale ha svolto sinora il suo ruolo oggettivamente improvvisato di presidente del Consiglio, avendo fatto tutt’altro mestiere prima di arrivare a Palazzo Chigi, limitata nei suoi danni solo dalla crescente e sempre meno silenziosa supplenza del capo dello Stato Sergio Mattarella, non influisce minimamente su quella che mi ispira Trump. Il quale probabilmente, per come vanno le cose da un certo tempo a questa parte anche oltre Atlantico, Uniti, fatto e detto le stesse cose con e per qualsiasi inquilino del lontanissimo palazzo romano di Piazza Colonna.
Mi basta e avanza per confermare la diffidenza verso Trump quel guantone nerissimo da pugile alzato mentre si contavano i voti degli americani per festeggiare una vittoria materialmente non ancora conquistata e al tempo spesso per minacciare di prendere a pugni il concorrente qualora lo avesse davvero sorpassato, e comunque per contestarne l’eventuale successo con pratiche che in Italia definiremmo giudiziarie, tra carte bollate, avvocati, avvocaticchi e magistrati dagli umori non meno variabili di quelli di casa nostra. Ho scritto casa, badate bene, non cosa, e tanto meno con la maiuscola. Per fortuna Trump ha mostrato, fra l’altro, nei suoi quattro anni di regno di non avere grande considerazione delle Nazioni Unite. Avrebbe già chiamato i caschi blu per sorvegliare seggi e poste americane.
Già sbeffeggiato dal Covid, d’altronde in numerosa compagnia dappertutto, dal terrazzo della sua Casa Bianca Trump con quel guantone, quel pugno, quello stile e quella vigoria tutta studiata, solida come la cartapesta, non potrà andare lontano: non molto più lontano di dove sia già arrivato tenendo tutto il mondo col fiato sospeso: tutto l’opposto dell’America alla quale si era abituata almeno la mia generazione, sia pure chiusa a scopo cautelativa da Giovanni Toti, il governatore della Liguria, in qualcuno degli armadi delle sue residenze.
Entro in officina per ragioni di cuore scommettendo sulla vignetta di Makkox per Il Foglio, cioè su Joe Biden. Va bene, l’ex vice di Obama finirebbe il suo mandato a 82 anni: quanti ne aveva Sandro Pertini – ho sentito ricordare in qualche trasmissione televisiva con un certo scetticismo – al momento dell’elezione a presidente della Repubblica italiana, nel 1978. Sette anni dopo, se fosse dipeso da lui, avrebbe raddoppiato. Ed è stato, anzi è nella memoria degli italiani il presidente forse più rimpianto fra quelli succedutisi al Quirinale, senza offesa per i morti e per i vivi.