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I Graffi di Damato. La Quaresima durissima di Nicola Zingaretti nel Partito Democratico

Come accade sempre più spesso da quando gli editorialisti di professione hanno preso l’abitudine di guardare più alla superficie che in profondità, è stato il vecchio e simpatico vignettista Sergio Staino a raccontarci meglio di tutti le dimissioni improvvise e alterate di Nicola Zingaretti da segretario del Pd. Egli ha puntato la matita su Giuseppe Conte immaginandolo come il successore designato: altro che il movimento delle 5 Stelle affidato all’ex presidente del Consiglio da Beppe Grillo sulla terrazza dell’albergo romano con vista sui Fori imperiali.

La Quaresima di Zingaretti era già dura per gli errori da lui compiuti nella gestione della crisi di governo, poi rinfacciatigli da avversari e critici interni, seguendo i consigli di Goffredo Bettini e dicendo “Conte o elezioni”, equivalente a “Conte o morte”, sino a quando non si è trovato di fronte Mario Draghi. Che pure lui, come Conte, aveva scambiato per un uomo troppo stanco delle fatiche alla guida della Banca Centrale Europea e sostanzialmente indifferente ai guai del suo Paese. Ma da dura questa Quaresima è diventata durissima, insostenibile quando la designazione di Conte a capo di un movimento grillino rifondato o rigenerato si è tradotto con i sondaggi in quattro punti in meno per il Pd e sei in più per le 5 Stelle, o come si chiameranno alla fine dell’operazione innescata dal comico genovese.

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In pratica, Zingaretti si è svegliato dal sonno sorvegliato o procuratogli da Bettini e si è accorto di avere inavvertitamente coltivato quello che una volta, ai tempi della prima Repubblica, i politici avrebbero chiamato “il nemico in casa” sotto veste di alleato preferito. E piuttosto che prendersela con la sua dabbenaggine, superficialità, visione corta e quant’altro, il fratello del Commissario Montalbano se l’è presa coi compagni di partito scoprendo all’improvviso – anche in questo – che sono sempre i soliti, attenti più alle loro correnti e sottocorrenti che ai problemi del Paese e persino del partito inteso come comunità, se non come “ditta”, secondo la denominazione usata già dai tempi del Pci da Pier Luigi Bersani.

Ora sembra che il primo nodo da sciogliere sia quello della natura vera delle dimissioni di Zingaretti, da alcuni sospettato di avere buttato la sua rinuncia sulla bilancia dell’Assemblea Nazionale del Pd della prossima settimana per farsi confermare, o acclamare addirittura segretario e affrontare con ritrovata energia – si fa per dire – le scadenze di un congresso probabilmente anticipato e delle elezioni amministrative nel frattempo rinviate dalla primavera all’autunno a causa, o grazie alla pandemia. Ma il buon Fabio Martini, sempre sulla Stampa, come Sergio Staino con la sua vignetta, ha raccolto la confidenza di un compagno di Zingaretti che lo avrebbe sentito parlare per telefono di una rinuncia “irrevocabile”.

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Spiazzati anche loro dagli eventi, gli amici di Zingaretti nel Fatto Quotidiano hanno mostrato di prendersela, nel titolo di apertura del giornale, e fotomontaggio incorporato, con Draghi e i “danni collaterali” del suo governo. Ma è un titolo curiosamente smentito dal direttore Marco Travaglio, che nel suo editoriale riconosce al nuovo presidente del Consiglio di essere “per fortuna estraneo ai giochi politici” e se la prende col capo dello Stato. Che lo avrebbe praticamente imposto a Palazzo Chigi rinunciando alle elezioni anticipate cui avrebbe prima fatto finta di essere disponibile. Mattarella insomma come Napolitano con Monti nel 2011, o i Barberini dopo i barbari tanti ma tanti secoli fa. Vasta cultura…

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