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404 not found. Tutti i Paesi in cui Internet viene bloccato
La repressione delle dittature del terzo millennio passa attraverso il blocco di Internet. Tra i casi più gravi Ciad, Etiopia, Russia e Bielorussia. Ma i due Paesi peggiori al mondo sono in Asia
Il rapporto Global Cost of Internet Shutdowns in 2020 ha calcolato qual è l’impatto economico dei grandi blackout di internet e della chiusura dei social media nel mondo. Staccare la spina alla rete però non è indicativo solo di una perdita economica ma anche di quanto è a rischio la democrazia in alcuni Paesi. Non è un caso infatti che spesso durante queste interruzioni siano stati perpetrati abusi dei diritti umani.
I DATI
Le oltre 27.000 ore di interruzione di internet in tutto il mondo nel 2020 sono costate all’economia globale 4,01 miliardi di dollari. Nel 2020 i blackout provocati intenzionalmente sono durati il 50% in più rispetto al 2019 e si sono concentrati soprattutto nelle regioni più povere del mondo.
I TRE PEGGIORI
India e Myanmar sono stati responsabili degli arresti più lunghi per il secondo anno consecutivo, con le restrizioni originariamente imposte nel 2019 che sono continuate per tutto il 2020. Il Ciad ha nuovamente limitato l’accesso a WhatsApp dopo aver bloccato l’app per più di un anno già nel 2018-19. Messi insieme, questi Paesi hanno sperimentato un aumento totale del 64% del numero di ore di restrizioni nel 2020, nonostante l’emergenza sanitaria globale.
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Oltre a questi tre casi più estremi, in generale, le interruzioni sono durate in media il 3,5% in più nel 2020 (268 ore per Paese) rispetto all’anno precedente (259 ore).
LA FRAGILITÀ DELLA DEMOCRAZIA
Come ha ricordato Human Rights Watch, “gli arresti di internet impediscono alle persone di ottenere informazioni e servizi essenziali. Durante questa crisi sanitaria globale, gli arresti danneggiano direttamente la salute e la vita delle persone e minano gli sforzi per tenere la pandemia sotto controllo”.
Il rapporto ha notato che i blackout si verificano più spesso in risposta a proteste o disordini civili, soprattutto in prossimità delle elezioni, in quanto i regimi autoritari cercano di limitare il flusso di informazioni e mantenere la loro presa sul potere.
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È significativo notare inoltre che ogni blocco che è avvenuto a ridosso di un’elezione nel 2020 è coinciso con le accuse di interferenza elettorale.
E mentre la pandemia globale in corso rende impossibile prevedere cosa accadrà nel 2021, l’evidenza suggerisce che gli arresti di internet continueranno a causare miseria e diseguaglianze in tutto il mondo.
ETIOPIA E UGANDA, RUSSIA E BIELORUSSIA
Anche in altri Paesi la situazione è critica. In Etiopia la rete è inaccessibile da novembre nella regione del Tigrai, dove è in corso un sanguinoso conflitto tra il governo centrale e quello regionale guidato dal Fronte popolare di liberazione. Anche in Uganda c’è stato un blackout “preventivo” legato ad elezioni particolarmente calde. Sono stati bloccati gli accessi a Twitter, Facebook e Youtube e il giorno prima del voto del 14 gennaio internet è stato del tutto oscurato.
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In Russia e Bielorussia internet è controllato dai rispettivi regimi e nelle ultime settimane internet è stato sospeso molte volte, mentre cresceva la protesta contro il regime di Lukashenko in Bielorussia e di Putin in Russia. Come ricorda Repubblica, “dopo le elezioni presidenziali del 9 agosto scorso che hanno decretato la controversa vittoria di Lukashenko, internet è stato inaccessibile per 61 ore e la connessione dei cellulari è rimasta instabile fin da allora, soprattutto nei weekend, in corrispondenza con l’organizzazione delle manifestazioni di piazza”.
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LA CINA
Internet è anche uno degli strumenti di controllo della Cina su Hong Kong, dove Pechino ha imposto la legge sulla sicurezza nazionale. La compagnia che approva i domini “.hk” ha avuto indicazione di chiudere tutti i siti che “incitano ad atti illegali” – come ha riportato Repubblica – “dopo che il provider Hong Kong Broadband Network ha bloccato l’accesso ad HKChronicles, un sito che forniva informazioni sulle proteste antigovernative e che, secondo le autorità, pubblicava dettagli personali sui membri delle forze di sicurezza”.