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Il femminicidio di Giulia e la cultura patriarcale. Parla la criminologa Bruzzone

Femminicidio Cultura Patriarcale

Femminicidio: i dati della violenza maschile, la cultura patriarcale e l’educazione come strada per affrancarsi. Intervista alla criminologa Roberta Bruzzone

Il numero delle donne vittime di femminicidio si aggiorna quotidianamente. L’ultimo caso è quello di Rita Talamelli, sessantaseienne strangolata a Fano dal marito che ha tentato poi il suicidio. Pochi giorni prima di lei Giulia Cecchettin, giovane studentessa in procinto di laurearsi, per la cui morte è stato fermato l’ex fidanzato Filippo Turetta.

Una lunga scia di sangue che richiede una riflessione che vada anche oltre il dato normativo, per andare a incidere sulle dinamiche culturali e relazionali

Di tutto questo ne abbiamo parlato con Roberta Bruzzone, criminologa, psicologa forense e scrittrice.

Come si può descrivere in termini criminologici la violenza maschile sulle donne?

In estrema sintesi è un esercizio di potere. Costruito, affermato e tramandato da secoli. Un esercizio di potere che si basa su un presupposto molto preciso, il padre di tutti gli stereotipi: gli uomini sono superiori alle donne e quindi le devono dominare. Dal punto di vista criminologico la violenza sulle donne è questo: esercizio di potere legittimato da secoli di insegnamenti che poggiano su questo tipo di presunzione.

I dati Istat rilevano che gli uomini si macchiano, più spesso delle donne, di reati di sangue ma non solo, anche gli incidenti stradali vedono più spesso gli uomini tra i responsabili. Secondo lei da cosa deriva questa diversa propensione al rispetto delle regole e all’aggressività?

Ci sono ragioni culturali e anche neurobiologiche. I maschi sono decisamente più inclini a manifestare comportamenti aggressivi e violenti, dal punto di vista neurobiologico, se chiaramente non vengono educati a contenere questi aspetti, e soprattutto sono molto più incentivati culturalmente a farlo. Le condotte aggressive, assertive e attuate per dimostrarsi più forte degli altri, anche sotto il profilo fisico, sono scenari altamente apprezzati a livello sociale, anche promossi come modello di riferimento maschile. Quindi è normale che i maschi siano più aggressivi e violenti.

Se dovessimo mettere sul piatto della bilancia le ragioni culturali e quelle neurobiologiche, quali sarebbero le più rilevanti per spiegare la violenza maschile?

Sicuramente il dato biologico non è prioritario, il dato culturale è quello più importante. Pensiamo a quello che succede quando i bambini si confrontano tra di loro. Se una femmina bisticcia con un’altra bambina o con un bambino, immediatamente le viene imposto di non reagire e di chiedere aiuto alla maestra.

Se, invece, è un bambino a essere picchiato da un altro bambino o da un’altra bambina, il messaggio che riceve dal punto di vista genitoriale è quello di reagire, di non farsi mettere sotto, di rispondere perché viene considerato un modello culturalmente più accettabile. Cioè i maschi non possono chiedere aiuto, altrimenti non sono abbastanza maschi. Quindi il dato neurobiologico c’è ma il dato culturale è quello che dà via libera a condotte di questo genere

Un altro dato culturale con il quale ci confrontiamo ogni volta che c’è una vittima è la vittimizzazione secondaria, o victim blaming. Nell’ultimo caso un po’ meno perché il profilo dell’ultima vittima era più simile a una bambina che a una donna. In ogni caso perché, spesso, assistiamo alla caccia alla responsabilità delle vittime?

Sull’ultimo episodio darei tempo al tempo. Purtroppo sto assistendo ad alcuni assurdi commenti che riguardano Giulia, mi pare che purtroppo nemmeno lei ne sia immune. Il victim blaming è molto amato dal patriarcato. Il meccanismo è questo: se una donna si comporta come dicono gli uomini, non succede niente, se una donna non si comporta come prescrivono gli uomini o sfida l’autorità maschile e da ciò derivano dalle conseguenze negative, se l’è cercata. E quindi il victim blaming è automatico.

Ma la cosa grave è che non è automatico solo da parte degli uomini ma soprattutto da parte delle altre donne che censurano quella condotta. Secondo l’ultima ricerca Istat sugli stereotipi di genere e la violenza, uno dei dati più allarmanti è che sono proprio le donne a essere convinte che se succede qualcosa di male a una donna è perché, in fondo, se l’è cercata e che alle donne perbene certe cose non succedono.

E se la matrice dell’offesa è sessuale in quel caso il victim blaming è ancora più elevato, sale la percentuale soprattutto di donne che ritiene che se la sia cercata perché era vestita in maniera succinta, perché aveva bevuto, perché si è drogata, perché è andata dove non doveva andare. Sono tutte questioni legate al patriarcato che non ne vuole sapere di tramontare e che ancora oggi vediamo ampiamente rappresentato anche in maniera inconsapevole ma molto, molto diffusa.

Quali sono le armi a disposizione delle donne per difendersi dalla violenza maschile?

Intanto diventare consapevoli di quali sono gli elementi che hanno introiettato che le predispongono a diventare vittime. Il primo tra tutti è l’elemento che le porta a convincersi che per essere adeguate devono essere disponibili a prendersi cura degli altri. Questo è quello che io chiamo “badante interiore”. Ecco bisogna spegnerla. Perché è pericolosissima.

E invece quali sono gli strumenti a disposizione degli uomini per difendersi dalle influenze culturali negative legate al patriarcato?

Ecco qui la questione si complica un po’ perché obiettivamente loro hanno notevoli vantaggi a mantenere saldo questo assetto culturale, perché, di fatto, porta loro tutta una serie di enormi privilegi ma anche delle gabbie di ruolo non sempre così facili da indossare.

Quindi rinunciare alla matrice patriarcale per un maschio è veramente difficile perché in realtà deve essere abbastanza evoluto da non legare il controllo su una donna, alla sua reputazione di maschio. E qui la questione si complica perché questo gli è stato insegnato sin da quando era piccolo: i maschi sono maschi solo nella misura in cui sono più forti, più capaci e dominano le femmine.

Il ministro dell’istruzione ha avanzato l’idea di attivare corsi di educazione all’affettività nelle scuole. Secondo lei sono utili?

Io e Aldo Grauso a Roma, insieme al tavolo tecnico, con il Moige, la Polizia di Stato e altre organizzazioni importanti, abbiamo ottenuto l’ok a introdurre nelle scuole romane la materia dell’educazione all’affettività. È un progetto pilota che ci auguriamo possa estendersi. Credo che possa essere certamente uno strumento in più. È chiaro che non sarà la panacea di tutti i mali, non sarà la bacchetta magica, però quello che i ragazzi evidentemente non imparano in famiglia, magari hanno una chance in più per impararlo a scuola.

– Leggi anche: Cultura patriarcale, perché Openpolis bacchetta Verderami

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